lunedì 31 dicembre 2012

Il Partito dei poveri ... che non troverete sulle schede

La politica non è cosa per poveri: è questa la sgradevolissima impressione che si ha da tempo, ancora prima dei vari Lusi, Belsito, Fiorito, Maruccio e compagnia spendente. Eppure qualcuno non sembra pensarla così: gli increduli possono rivolgersi a «Trevisol Giuseppe, classe 50», come lui stesso si definisce, che è l’ideatore del PdP. Non è la sigla di Paperon de' Paperoni di disneyana memoria, bensì del Partito dei poveri. 
Emigrato dal Veneto in Lombardia, Trevisol ha lavorato da quando aveva 15 anni, poi ha operato nel campo delle assicurazioni e della mediazione immobiliare; non nasconde i suoi limiti, ma sceglie con trasparenza di confessarli dall’inizio («non sono un santo, mi sono rovinato al casinò e ho avuto qualche problema con la legge per il fallimento delle mie società, però quando è successo avevo venti anni in meno»). Non nasconde nemmeno di avercela con gli italiani, perché «continuano a sostenere i vecchi politici furbacchioni che ci hanno portato in questa situazione: per finta litigano ma nella sostanza fanno un governo insieme, sostengono le banche anche se queste i soldi non li prestano più a nessuno o quasi, preferiscono investire o soldi che ricevono dall'Europa comprando il debito italiano, guadagnando interessi pagati con le nostre tasse». Trevisol ce l’ha anche con le banche per i consigli «volutamente sbagliati» dati ai clienti e per le quali non hanno mai pagato, nonché con la stampa, considerata «parte della casta».
Per l’ex imprenditore si è di fronte a un fallimento dell’economia e della politica: «I politici oltre a dare lavoro ad amici e parenti aumentando il debito pubblico non sanno fare, il lavoro vero lo danno solo gli imprenditori, ma questo stranamente non viene mai detto sui giornali ed in televisione facendo credere che il lavoro si crea facendo una legge». Non risparmia i politici dunque, ma nemmeno i dirigenti dei sindacati, «mangia pane a tradimento, affamano gli operai facendo fare loro degli scioperi di facciata ma mai andando allo scontro totale per migliorare gli stipendi».
Trevisol ha in testa un programma preciso, riducibile in quindici punti. In gran parte si tratta di misure economiche per aiutare chi è in difficoltà, dalle mense per i poveri a carico dello stato, ai mercati statali con generi di prima necessità a prezzo politico, fino allo stipendio e alla pensione garantiti anche alle casalinghe e alle pensioni minime di 1200 euro mensili: ci sono anche gli sgravi fiscali per persone separate, divorziate o tenute a pagare gli alimenti e la possibilità di avere case in affitto al 20% dello stipendio, nonché sostegni mirati a famiglie a basso reddito e anziani (per gli asili o le case di riposo) e ai disoccupati (con l’obbligo di frequentare corsi professionali). Altri punti sono inquadrabili come “moralizzazione” del denaro pubblico, dalla fine delle missioni di pace al tetto di 2500 euro per gli stipendi dei dirigenti pubblici, alla nazionalizzazione delle banche per evitare speculazioni; Trevisol propone anche la riabilitazione per i falliti che non abbiano procurato danni gravi ad altri e una legge contro l'iscrizione di ipoteca per recuperare un credito.
Tutti questi punti fanno parte del programma del Partito dei poveri, che l’ex imprenditore ha fondato nel 2009 con l’amico Giancarlo Aragona: ne hanno addirittura depositato il simbolo all’Ufficio brevetti e marchi, un emblema molto semplice, con la sigla e la denominazione in font Bodoni bold, bianche su fondo rosso. L’obiettivo della formazione è la tutela dei poveri, tra i quali «non ci sono solo gli indigenti, ma anche persone o famiglie che fino a ieri erano la classe media o benestante e che all’improvviso si trovano senza nessun sostegno».
Sulle schede elettorali, purtroppo, il Partito dei poveri non ci sarà: «Purtroppo, non essendo in grado di raccogliere firme per partecipare alle elezioni – dichiara lo stesso Trevisol nel sito del partito – mi vedo costretto a chiedere a qualche deputato se ha voglia di mettersi in giuoco con noi». Non sarà facile trovarlo ma, ove ci fosse, sarebbe davvero una novità…

domenica 30 dicembre 2012

Tremonti, una freccia contro la paura (della paura)

Mentre i telegiornali sono ricchi di dichiarazioni sul centrosinistra (Pd+Sel+Psi+Cd), sull'area "arancione" (Rivoluzione civile), sul Pdl (o ciò che rimane) e sui possibili alleati, sulla Lega e talvolta sul Movimento 5 stelle: non appare, invece, la formazione guidata dall'ex ministro Giulio Tremonti, il cui programma è tutto meno che semplice, ma è presentato senza mezze misure. Lui, il principale alfiere della "finanza creativa", ha creato la "Lista lavoro e libertà". 3L, per chi volesse far prima.
"Siamo in guerra. Dentro una strana guerra: economica, non violenta, “civile” e per questo diversa da quelle del passato. Ma pur sempre una guerra! Possiamo perderla, questa guerra, se per paura accettiamo di farci colonizzare, se nel 2013 votiamo per dare il nostro richiesto consenso al nostro assistito suicidio". Una frase d'impatto, non c'è che dire, come sorta di preambolo per il programma del partito. Per Tremonti in Italia ci sono "troppe tasse e troppa paura", si fallisce non solo più per debiti, ma anche "per i crediti, perché il denaro – fatto per circolare – non circola".
Per vincere la guerra di cui parla, Tremonti sostiene che occorre vincere la paura "perché è la paura, e solo la paura, che fa paura": a suo dire, l'Italia sarebbe "(ancora) enormemente ricca, più ricca di quanto si dice agli italiani" e, se indubbiamente servono sacrifici, secondo l'ex ministro "avranno un fine ed una fine e non saranno per fare guadagnare gli altri, ma per mettere davvero in sicurezza l’Italia e gli italiani".
Tutto questo, compreso il suo programma - una sberla di 81 pagine, che anche nelle proposte sintetiche non sembra particolarmente chiaro a chi non si ciba normalmente di economia e finanza - dovrebbe stare nella grafica minimalista del simbolo che l'ex ministro ha scelto per la sua creatura politica: una frecciona arancione, che punta in alto a destra (come quella di Fermare il declino, che però viene prima), sormontata soltanto dalla denominazione del partito, blu e di font oblungo come il cognome di Tremonti sovrapposto alla freccia; appena sotto alla punta, la sigla 3L, in un grigio poco entusiasmante (come del resto l'effetto dell'intera cromia non è di quelli da ricordare).
Tremonti ritiene essenziale che a portare avanti il suo progetto, che punta in alto come la sua freccia, sia "una maggioranza di giovani" e che la politica sia messa in quarantena, così che "almeno per un giro [...] per nessun incarico politico si potrà guadagnare più di un precario". Verrebbe da chiedersi: compreso Tremonti stesso?

sabato 29 dicembre 2012

Ingroia alla Rivoluzione (civile) come Pellizza da Volpedo

Alla fine, rivoluzione sarà. Antonio Ingroia e gli altri "arancioni" devono avere considerato troppo barricadera e violenta la denominazione "Rivolta democratica" e hanno preferito l'altra alternativa, scegliendo per il loro nuovo soggetto politico il non meno forte concetto di "Rivoluzione". Che, però, non è più definita "democratica", visto che alla fine si è scelto di battezzarla piuttosto "civile": sarà che l'altro aggettivo era un po' abusato (tra il Pd e la nuova formazione di Donadi e Tabacci c'era rischio di confondersi, magari di essere affiancato), sarà che si è voluto calcare la mano anche su una buona dose di legalità che il programma dovrebbe avere, sta di fatto che si è preferito dirsi "civili", anche perché la democraticità dovrebbe essere sottintesa, in fondo.
L'arancione c'è ancora, ma nel contrassegno finale che proprio poco fa è stato ufficializzato è piuttosto sfumato, niente a che vedere con il colore "carico" che aveva accompagnato le prime prove simboliche dei giorni scorsi. Proprio dove la tinta di fondo scema, campeggia a caratteri cubitali il nome di Ingroia, che a questo punto deve aver accettato di essere indicato come capo della coalizione e, dunque, potenziale Presidente del Consiglio. A qualcuno l'idea di indicare il nome sull'emblema non è piaciuta molto o, per lo meno, è risultata poco comprensibile: "troppo nero e troppo personalismo" si legge in alcuni commenti della prim'ora su Facebook, mentre altri - che magari conoscono meglio la legge elettorale - apprezzano e manifestano già intenzioni di voto.
Sotto al nome, non ci sono più le due mani a dita incrociate, quella sorta di doppio "saluto lupetto" che univa due segni di vittoria o formava il simbolo del "cancelletto" (o di un hashtag di Twitter, vai a saperlo): la sagoma rossa, inconfondibile, è quella del Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, un capolavoro dell'arte divisionista, ma soprattutto un simbolo storico per la sinistra italiana. Non a caso, in Rivoluzione civile sono compresi anche i due partiti maggiori della "sinistra estrema", ossia Rifondazione comunista e i Comunisti italiani, che certamente avranno manifestato gradimento per quella raffigurazione, se non l'hanno addirittura ispirata.
Finora non si sono registrati contrassegni che abbiano sfruttato il forte potere iconografico di quell'opera d'arte (mentre in altri casi certi dipinti sono stati presi tali quali e proiettati sullo sfondo di contrassegni, valga per tutti il Tondo Doni di Michelangelo, sfruttato dalla lista "Difesa della famiglia" alle ultime elezioni politiche). Una rappresentazione simile, per assurdo, la si era vista nel 1996 in un contrassegno di una non meglio precisata "Destra di popolo" (a sostegno di un illustre carneade come Mario Crucianelli), con la donna che invece del bambino reggeva una borsetta. 
Per vedere altri cumuli indistinti di persone, che abbiano avuto per lo meno un certo successo, occorre tornare sicuramente alla Rete di Leoluca Orlando (con disegno di Diego Novelli), dunque alla prima metà degli anni Novanta. Non a caso, Orlando sostiene anche Rivoluzione civile; allora però il sottotitolo scelto all'interno del simbolo era "Movimento per la democrazia" (e, bisogna pure notarlo, quelle silhouette di persone che si affacciavano nell'emblema erano sorridenti), questa volta invece i toni sono molto più accesi e francamente si sorride molto meno (non che ci fosse molto da ridere anche allora). Sarà pure lento l'incedere del popolo, ma l'immagine scelta è potente e non manca di colpire; se colpirà anche gli elettori, è ancora un po' presto per dirlo.

venerdì 28 dicembre 2012

La bandierina democratica di Donadi e Tabacci sul Centro

L'avevano annunciato da giorni, come una sorta di "parto programmato": Bruno Tabacci e Massimo Donadi, alle prossime elezioni, saranno a fianco del Pd con un loro simbolo. Loro, che hanno storie politiche così diverse - Tabacci ex democristiano, ex Udc, fino al passaggio all'Api con Rutelli e Ubaldi e ora "battitore libero" del centrosinistra, forte anche dell'esperienza di assessore della giunta Pisapia a Milano; Donadi, per anni tra i più noti esponenti dell'Italia dei valori assieme ad Antonio Di Pietro, ma che poche settimane fa ha sbattuto la porta proprio in dissenso con il leader fondatore e si è portato dietro Formisano, Pedica e altri - si ritrovano uniti in una formazione chiaramente di centrosinistra, che contribuirà in modo manifesto al programma del Partito democratico che dovrà essere incarnato da Pierluigi Bersani.
Il contrassegno sembra almeno in parte parente di quello scelto poco tempo fa dallo stesso Donadi per la sua nuova formazione, Diritti e libertà: il semicerchio inferiore arancione (colore che, a quanto pare, a sinistra va molto di moda) c'era più o meno anche prima, così come è conservato un elemento tricolore, che però stavolta riprende la sigla della nuova formazione, ricordando un po' il logo del Pd. La denominazione del partito di Donadi è comunque presente, ma in una posizione quasi defilata, nella parte alta del simbolo ma con un font molto sottile. 
C'è chi è pronto a giurare che questo accorgimento grafico dipenda dalle lamentele di un'altra associazione preesistente, denominata proprio "Diritti e libertà", attiva nel volontariato e che si è sentita almeno in parte "defraudata" del proprio nome. «Siamo davvero rammaricati - ha detto Donadi -. Ci eravamo affidati a una società incaricata di verificare se esisteva già quel nome, quel marchio. Evidentemente abbiamo sbagliato società. Ma abbiamo anche dato rassicurazioni a queste persone che abbiamo provveduto a cambiare il nome del nostro movimento, visto che ci presenteremo alle elezioni con una lista diversa». Il Centro democratico, appunto.
A voler essere del tutto fiscali, non è proprio nuova nemmeno la sigla appena inaugurata da Tabacci e Donadi: a spulciare l'archivio dei contrassegni presentati dal 1946 in poi, si trovano - a parte ovviamente il Ccd di Casini - un "Movimento centro democratico" alle elezioni per la Costituente, un "Centro democratico" alle politiche del 1979 e del 1983 e un altro, diverso movimento omonimo alle politiche del 1994. Difficile però che quei soggetti possano avanzare pretese sul nome, in questo caso: di tempo ne è passato anche troppo e parentele grafiche non se ne riscontra nemmeno una (tricolore a parte, ma nessuno può farlo interamente suo).
Sono Tabacci e Donadi, casomai, che cercano di mettere una bandierina sul "centro" (non a caso, è la parola scritta con maggiore evidenza sul contrassegno) prima che lo facciano prevedibilmente tutti gli altri. In quell'area politica, infatti, ci sarà il consueto sovraffollamento, irrimediabilmente complicato dalla presenza di Monti, Montezemolo e compagnia centrante: «Il centro non sarà più il luogo delle ambiguità, dove ci si posiziona comodi in attesa di capire da che parte conviene girarsi - scrive ancora Donadi -. Da oggi, c’è una forza di centro che si assume le sue responsabilità». Se centro dev'essere, insomma, che sia almeno democratico: tutti gli altri, montiani compresi, sono avvertiti.

giovedì 27 dicembre 2012

Quando la lite si inFiamma - l primi anni Duemila

Quando arrivano le elezioni del 2001, alla sede della Fiamma tricolore sono quasi del tutto tranquilli: si può tranquillamente ripresentare il simbolo che due anni prima il Ministero dell’interno ha preso per buono alle elezioni europee, se l’ha considerato valido due anni prima, perché mai dovrebbe cambiare idea questa volta? In effetti l'anno precedente c'era anche un'altra fiamma in circolazione, quella del Movimento sociale europeo di Roberto Felice Bigliardo, Clemente Manco e Nicola Cospito, usciti appunto nel 2000 dalla Fiamma tricolore: l'esperienza politica, tuttavia, è durata poco (Bigliardo è rientrato in An dopo alcuni mesi), dunque la presentazione dell'emblema dovrebbe andare liscia.
La doccia fredda arrivata del tutto inaspettata e, dunque, sembra ancora più ghiacciata. Già perché, questa volta, il Viminale il simbolo lo rispedisce al mittente. Troppo simile a quello di Alleanza nazionale, bisogna cambiarlo. Qualcuno grida al voltafaccia, persino al complotto; la verità è che, rispetto al 1999, An ha ripreso il contrassegno tradizionale, senza più l’elefantino a sballare tutte le dimensioni dell’emblema. Stavolta la fiammella si vede di nuovo abbastanza bene e la confondibilità potrebbe esserci; per di più, An ha depositato il simbolo col numero 103, la Fiamma con il 114, per cui tocca a chi è arrivato dopo cambiare marchio.
Si lambiccano il cervello al quartier generale di Pino Rauti: alla fiamma non si vuole rinunciare, ma “quella” fiamma non va bene. Alla fine si opta per una soluzione di emergenza: via la scritta «Movimento sociale» (tanto ormai tutti chiamano il partito solo «Fiamma tricolore»), quello che resta della denominazione fa una sorta di semicerchio, mantenendo il vecchio font; quanto alla fiamma, resta, ma a guardarla bene sembra piuttosto una goccia bianca, con due “toppe” verdi e rosse che tentano di dare l’idea del tricolore, ma con l’ombra sottostante comunicano solo la fretta con cui si è arrivati alla soluzione. Bello o no, l’emblema passa e arriva sulle schede: l’accordo di desistenza con la Casa delle libertà stavolta c’è e l’unico parlamentare che la Fiamma aveva lo mantiene.
Quel simbolo, però, in fondo non piace nemmeno agli aderenti alla Fiamma. Non a caso dura davvero pochissimo e, alla prima occasione utile – già al congresso del 2002, che porta alla segreteria Luca Romagnoli, mentre Rauti resta presidente – l’emblema inizia a cambiare foggia: la parte testuale non cambia, mentre la fiamma mantiene la forma a goccia e le “pezze” di colore restano con tanto di ombra, ma il loro bordo è più irregolare.  
In una prima versione, ad essere seghettato è solo l'esterno dei due elementi colorati, in seguito lo stesso trattamento è riservato all'interno e il disegno che risulta (specie se immaginato sulle schede, in un cerchio di 3 centimetri di diametro) sembra davvero una fiammella, appena piu schiacciata in larghezza rispetto a quella del 2001.
L’emblema ai militanti piace molto di più di quello adottato alle politiche e, anche se il simbolo ufficiale, come da statuto, resta quello del vecchio Msi (che ovviamente la Fiamma non può usare, per la nota vicenda legale che continua a opporre la Fiamma tricolore ad An, riuscendo quest'ultima sempre vincitrice), quello adottato per ultimo di norma non viene più toccato in seguito, se non per essere inserito in contrassegni più complessi.
Quando è il momento di presentarsi alle elezioni europee, infatti, l’emblema utilizzato è quell’ultima versione – mentre viene di nuovo bocciato quello del 1999, presentato all'ultima consultazione per il Parlamento europeo: lo 0,73% raccolto in quell’occasione è sufficiente a confermare un seggio a Strasburgo (lo occupa il segretario Romagnoli), nonostante a confondere le acque siano spuntate altre fiamme. 
Già, perché in quella tornata c’è anche Alessandra Mussolini, che con la sua piccola formazione «Libertà di azione» dà vita al cartello «Alternativa sociale», con il Fronte sociale nazionale di Tilgher e Forza Nuova di Roberto Fiore: proprio quest’ultimo partito tenta di abbandonare il suo emblema tradizionale della coccarda tricolore su fondo blu e lo sostituisce con un altro in cui la F (verde) e la N (rossa) stilizzate vanno a somigliare – guarda caso – a una fiamma, peraltro su una base trapezoidale nera in cui è contenuto il nome del partito, replicato anche sui bordi del cerchio. È troppo anche per il Viminale, che infatti boccia l’intero emblema di Alternativa sociale, accettato una volta che Forza Nuova ha ripreso il suo vecchio simbolo.
Soprattutto, però, a quelle elezioni c’è pure Pino Rauti. Messo in minoranza al congresso straordinario di pochi mesi prima, ha fondato una sua forza politica, il «Movimento idea sociale»: la sigla è Mis, proprio come molti compitavano quella dell’Msi perché così era ben difficile da pronunciare – del resto, si è sempre detto “missino”. Non basta: il simbolo depositato al Ministero, all’interno di una corona circolare azzurra sfumata (e con una stampa non proprio perfetta), c’è una fiamma stilizzata, con il profilo dell’Italia nel mezzo e, verso il basso, un trapezio blu con dentro la sigla «M.I.S». Niente punto dopo l’ultima lettera, proprio come non c’era in «M.S.I» nel vecchio simbolo di Almirante. Anche qui, per il Viminale si è passato il segno: quel trapezio, così com’è, proprio non va. Forse manca il tempo di sistemarlo, forse la voglia non c’è: da qualche parte spunta un pennarello blu che copre alla bell’e meglio le lettere e stavolta il simbolo va bene. Il risultato alla fine è dello 0, 15%: troppo poco per avere un europarlamentare, anche spennarellato.

mercoledì 26 dicembre 2012

Se l'(A)Dc ha voglia di scudo crociato



Tra di loro c’è giusto una «A» di differenza. Va bene, da mesi Beppe Grillo parla di «PDmenoL», ma in teoria tra quei due partiti c’è un abisso. Non è così, invece, per l’Alleanza di centro, fondata alla fine del 2008 da Francesco Pionati dopo il suo abbandono dell’Udc, e per la Democrazia cristiana, ossia il partito ora guidato da Gianni Fontana che vuole identificarsi con la Dc “storica”, dopo il processo di “riattivazione” portato avanti nei mesi scorsi (ma c’è chi parlerebbe piuttosto di anni). I due movimenti, come hanno fatto sapere in una conferenza stampa a Montecitorio il 12 dicembre, hanno stretto un patto federativo sulla base dei «comuni valori democratico cristiani» ed è probabile che faranno un buon tratto di strada assieme, almeno fino alle elezioni.
Gli italiani “affezionati” al Tg1 ricordano Pionati per il suo ruolo di notista-pastonista politico per il telegiornale dell’ammiraglia Rai detenuto per quasi vent’anni – lui stesso si definisce «notista della prima Repubblica» – e hanno continuato a vederlo in tv anche dopo la sua entrata in politica: è comparso un numero impressionante di volte (soprattutto in proporzione alle dimensioni del suo partito), molto più di altri ex colleghi – la Gruber e Sassoli su tutti – che avevano lasciato il video per la politica. Meno noto è Gianni Fontana, in Parlamento dal 1972 al 1994, avvocato e con vari incarichi di governo (fino a divenire nel 1992 ministro dell’agricoltura nel primo esecutivo guidato da Giuliano Amato): dal 30 marzo 2012, Fontana è segretario della Democrazia cristiana, che sta preparando il tesseramento 2013 e pare avere le idee chiare sul suo futuro: «Non vogliamo una rappresentanza striminzita in Parlamento – ha scritto sull’Huffington Post Pietro Salvatori, citando lo stesso Fontana – la nostra vocazione è guidare il paese». Nientemeno.
L’ambizione del partito di Fontana sembra passare attraverso la collaborazione con l’Adc di Pionati: è lui stesso a proporsi di «innovare il sistema politico, fondendo questa carica di innovazione con la tradizione della Dc». Nostalgia di Balena bianca, voglia di scudo crociato: del resto, se tutto andrà come i due partiti vogliono, la federazione parteciperà alle elezioni a febbraio (ovviamente nel centrodestra, a sentire Pionati). Pare sia già pronto il simbolo (lo ha pubblicato il Giornale il 23 dicembre): un cerchio azzurro con la scritta «Alleanza di centro» a semicerchio in alto, una lunetta bianca in basso, con la scritta Democrazia cristiana e nel mezzo, manco a dirlo, lo scudo crociato.
Simbolo ricusato e ammesso - elezioni siciliane 2012
Non è la prima volta che l’Adc utilizza questo stratagemma, da sola o in alleanza sì con la Dc, ma quella di Giuseppe Pizza: in più occasioni nel simbolo ha tentato di inserire uno scudino, anche solo accennato, ma talvolta le commissioni elettorali si sono messe di traverso e lo scudo è stato tagliuzzato o sostituito; figurarsi cosa potrebbe accadere stavolta, se a essere utilizzato fosse lo scudo della Dc-Fontana, mutuato chissà perché da quello di Pizza (e chissà se si sono accorti che non era lo stesso della Dc del 1994). Facile immaginare le proteste dell’Udc – che difficilmente rinuncerà al suo di scudo, ancora diverso – e le successive schermaglie legali, a colpi di sentenze sfoderate e “tassi di democristianità” ostentati. Difficile dire, ora, come andrà a finire: si prospetta uno scontro infuocato, benché in pieno inverno.

martedì 25 dicembre 2012

E se sui simboli si candidasse l'agenda Monti?

La tv ha trasmesso le sequenze della conferenza stampa di Mario Monti fino alla nausea, ma vale la pena concentrarsi sulla frase più commentata: “Se una o più forze politiche con una credibile adesione a questa agenda […] manifestassero il proposito di candidarmi a presidente del Consiglio, valuterei la cosa. […] A priori, verificate tantissime condizioni, sì. Che è altra cosa dal dare il nome ad altri per liberi utilizzi». Monti, dunque, sembra non gradire l’uso indistinto del suo nome sulle schede e nella propaganda, a meno che alcune forze politiche condividano la sua “ricetta” e lo convincano a dirsi disponibile a guidare il nuovo Governo.
Ora, per l’articolo 14-bis del decreto legislativo n. 361/1957, il nome «della persona […] indicata come capo della forza politica» o «come unico capo della coalizione» dev’essere contenuto nel programma, depositato assieme al contrassegno con cui le liste vogliono distinguersi alle elezioni. Quel nome è scritto solo lì, non ci sono indicazioni sulla scheda accanto a ciascun simbolo o sul manifesto delle candidature: si ritiene che questo contrasterebbe con il dettato dell’articolo 92 della Costituzione, per cui è il Presidente della Repubblica a nominare il Presidente del Consiglio, non direttamente i cittadini.
Da anni però – anche prima dell’entrata in vigore del Porcellum – molti partiti e liste indicano il nome del loro “candidato” alla Presidenza del Consiglio anche all’interno del contrassegno da stampare sulle schede, anche con diciture esplicite come «Berlusconi presidente» o «Veltroni presidente» e col nome molto più in evidenza delle altre parole. Il Ministero dell’interno ha ammesso quella pratica, se non altro perché quei nomi sono considerati un’evidente indicazione del programma politico della lista che li usa e consentono un rapporto più chiaro con gli elettori.
Mettendo insieme tutto ciò, il nome di Mario Monti dovrebbe apparire solo nei contrassegni di quelle liste che, entro il 13 gennaio – termine per il deposito dei contrassegni al Viminale – abbiano indicato lo stesso Monti come capo della forza politica o della coalizione nel loro programma. Altre liste che si riconoscessero in quelle priorità senza indicare Monti come potenziale Presidente (magari perché lui non l’ha voluto), inserendo quel cognome nel simbolo si vedrebbero ricusare il segno per confondibilità (con la situazione imbarazzante per cui, a giudicare sulla “genuinità” degli emblemi riferiti a Monti, sarebbe una struttura guidata da un ministro del governo Monti).

lunedì 24 dicembre 2012

"Fermare il declino", per Giannino è tempo di "Fare"


Tanto se n’è parlato, che alla fine il partito è arrivato. Oscar Fulvio Giannino, sempre più simile – comunque vesta – al primo vero personaggio da quiz della tv italiana, Gianluigi Marianini di Lascia o raddoppia – ha trasformato ufficialmente in soggetto politico strutturato il suo movimento “Fermare il declino”, nato in estate. Giannino punta a presentarsi alle elezioni politiche e a quelle regionali con la sua squadra di persone, possibilmente in tutta l’Italia: ci sono i 45mila firmatari del manifesto (anche se non parteciperanno di certo tutti all’impresa politica), ci sono docenti di livello come Luigi Zingales e Michele Boldrin, politici di altre epoche (persino Carlo Scognamiglio ha firmato il manifesto, ma c’è anche Giancarlo Pagliarini) e c’è il tentativo di candidare Pietro Ichino, pur avendo egli immaginato una sua disponibilità per una lista Monti in Lombardia (mentre il Monti delle tasse a Giannino non piace proprio). 
Le idee sono le stesse dieci proposte messe in campo finora: ridurre il debito pubblico, la spesa pubblica (almeno 6 punti di PIL in 5 anni) e la pressione fiscale (almeno 5 punti in 5 anni); completare in fretta le liberalizzazioni, preferire il sostegno al reddito di chi perde il lavoro alla tutela dei posti esistenti; regolare i conflitti d'interesse; far funzionare la giustizia; liberare le potenzialità di crescita, lavoro e creatività dei giovani e delle donne; rendere di nuovo l’istruzione strumento di emancipazione socio-economica delle nuove generazioni; approdare a un «vero federalismo» che preveda ruoli chiari e coerenti per i vari livelli di governo.
Per Giannino – che peraltro vanta militanze politiche precedenti, dai repubblicani ad Alleanza democratica di Bordon, fino ai Riformatori liberali di Della Vedova e di nuovo al Pri – il movimento crede in una politica «fattiva, pragmatica, con poche chiacchiere e molti fatti. Siamo quelli del Fare, perché è il momento di agire con concretezza per fermare il declino». Non a caso, «Fare» è la parola che campeggia nel contrassegno scelto dalla formazione per le elezioni di febbraio: su fondo rosso, sono particolarmente evidenti la scritta e la frecciona bianca, naturalmente puntata verso l’alto (e verso destra, anche se loro direbbero piuttosto «in avanti»), quasi a pensare alla risalita dopo il declino. La freccia, a dire il vero, è uno dei simboli meno utilizzati nell’iconografica partitica: se ne ricordano obiettivamente poche, almeno tra i partiti di un certo peso, eccetto – si fa per dire – la prima versione dei Moderati italiani in rivoluzione di Samorì. Riuscirà la «piccola pattuglia di rompicoglioni di professione» (© di Giannino) ad approdare in Parlamento, a dispetto di ogni clausola di sbarramento e della mancanza di grandi finanziatori alle spalle?

domenica 23 dicembre 2012

Arancioni, prove di rivoluzione (o rivolta) democratica


Ora che le Camere sono state sciolte ed è stata ufficializzata la doppia data del 24 e 25 febbraio per lo svolgimento delle elezioni politiche, si può dire con certezza che le liste hanno giusto una ventina di giorni per concepire o ritoccare i loro contrassegni: in base ai tempi dettati dal d.lgs. 4361/1957 (con successive modificazioni), infatti, gli emblemi dovranno essere depositati tra le ore 8 dell'11 gennaio e le ore 16 del 13 gennaio. Fino ad allora, ci sarà ancora tempo per far sbizzarrire le menti dei grafici e la sete di popolarità dei partiti che si presenteranno da soli o costituiranno alleanze.
Tra coloro che hanno annunciato il proprio possibile impegno, ci sono anche gli "arancioni" di Luigi De Magistris: è ancora presto per sapere se il pubblico ministero Antonio Ingroia sarà alla guida di quella formazione, che tra l'altro dovrebbe catalizzare anche l'Italia dei valori e buona parte delle forze che nel 2008 avevano costituito il cartello elettorale "La Sinistra - L'Arcobaleno" (quindi i Verdi - Ecologisti di Angelo Bonelli, i Comunisti italiani di Diliberto e Rifondazione comunista di Paolo Ferrero e altri che volessero aggregarsi). Quell'esperienza, come è noto, non andò particolarmente bene – per la prima volta quei partiti non ebbero alcuna rappresentanza in Parlamento, a causa dello sbarramento del "Porcellum" – ma di quel precedente sembrano riprodursi almeno due caratteri (probabilmente, con l'idea di non ripetere il flop di cinque anni prima).
Innanzitutto, anche in questo caso non dovrebbero presentarsi gli emblemi dei simboli partiti che concorreranno al nuovo soggetto politico: era stato molto chiaro Ingroia su questo argomento, "Il modo migliore per far fare un passo avanti alla società civile è fare un passo indietro ... non dobbiamo essere un collage, un'accozzaglia di colori, un arcobaleno, ma una nuova identità che nasce e che dobbiamo portare a sintesi unitaria". Non si sa se avesse in mente proprio il fallimento della "Sinistra - L'Arcobaleno", ma certamente ha reso l'idea: niente simboli, anche minuscoli, nell'emblema della lista.
Secondariamente, anche questa volta si finisce per scegliere un emblema profondamente diverso da quelli della cosiddetta "sinistra alternativa": sembra di capire questo, visto che proprio oggi Repubblica svela le possibili versioni del contrassegno elettorale, in una gallery che comprende tre immagini. In tutte domina, come è ovvio, il colore arancione sullo sfondo, con la parte inferiore del cerchio occupata da due mani che, con l'indice e il medio aperti a V, sfoderano il segno della vittoria (che però negli anni '60 era anche il gesto di peace and love, così come altrove è un segno insultante); a guardare bene quelle dita, poi, il pollice a coprire le ultime due dita sembra rimandare più che altro al saluto scout dei "lupetti", con il più forte che si occupa dei più deboli.
Nella parte superiore, invece, trova posto il nome: pare che, al momento, le proposte oscillino tra Rivoluzione democratica e Rivolta democratica, scritte con pezzi di metallo fermati da viti, il tutto in bianco o in blu; sotto al tondo, invece, ci sarebbe il motto del movimento, che dal Cambiare si può dell'altro giorno è già diventato Cambiare si deve. Certo, "rivoluzione" e "rivolta" sono termini forti: il secondo rimanda agli schiavi, ai gladiatori, ai Ciompi e a sollevazioni potenti, spesso purtroppo finite maluccio; il primo appartiene alla storia della sinistra da sempre, ma ultimamente sembra un po' inflazionato, dopo che se ne sono appropriati anche Vittorio Sgarbi e Gianpiero Samorì. Entrambi i concetti sono temperati dall'aggettivo "democratica", almeno sulla carta più rassicurante: anche il cambiamento, in fondo, ha le sue regole del gioco. 

sabato 22 dicembre 2012

Lamberto e Mariano (Dini). Quando un tecnico si candida alle elezioni


Potrebbe essere questione di ore, per sapere cosa avrà intenzione di fare Mario Monti, ora che la sua (prima?) esperienza di governo si è conclusa, salvo naturalmente il «disbrigo degli affari correnti». Da giorni si rincorrono voci su candidature, pensieri, perplessità, tentazioni di scesa in campo o anche di rinuncia, causando dolori e preoccupazioni da una parte o dall’altra. Si è parlato di una, due, perfino tre liste a sostegno di Monti come persona indicata a svolgere il ruolo di Presidente del Consiglio (come è noto, non può essere candidato come parlamentare, essendo lui già senatore a vita, mentre potrebbe essere proposto come potenziale capo del Governo). Non è dato ancora sapere che simbolo avranno queste liste – se mai ci saranno: qualcuno ha parlato di «Italia per Monti» o qualcosa di simile, con il nome del Professore ben in vista e un probabile contorno tricolore a fondo azzurrino. Nell’attesa, può essere interessante ricordare un precedente del 1996, per ricordare cosa accadde alla scadenza del primo “governo tecnico” della storia italiana (a non voler riconoscere tale qualifica anche all’esecutivo di Carlo Azeglio Ciampi, che era venuto due anni prima). 

Presidente del Consiglio, in quei giorni, è Lamberto Dini, già ministro del tesoro nel primo governo Berlusconi, catapultato a Palazzo Chigi all’inizio del 1995 dopo le dimissioni del Cavaliere (e non esattamente in accordo con lui, almeno nell’ultimo periodo). Pensa che ti ripensa, Dini vuole entrare in Parlamento con una sua squadra, senza allontanarsi troppo dal centrosinistra che di fatto è stato uno dei suoi sponsor. Così il 28 febbraio, pochi giorni dopo le sue dimissioni, presenta alla stampa il suo contrassegno, «Rinnovamento italiano – Lista Dini»: è tra i primi (dopo Pannella, ovviamente) a mettere il suo nome a caratteri cubitali nell’emblema, così come usa in abbondanza le tinte nazionali del tricolore (una piramide? Una strada in prospettiva? La scia delle frecce tricolori?) e del fondo blu, condite da una quindicina di stelle che fanno tanto Europa.
Con quel simbolo, naturalmente, vuole partecipare alle elezioni e in effetti un rappresentante l’8 marzo si mette in fila al Viminale per depositare il contrassegno. Dev’essersela presa comoda e aver sottovalutato la perfidia di chi, nel centrodestra, si era sentito tradito dalla candidatura di un ex ministro del governo Berlusconi. Così, il logo di Rinnovamento italiano viene depositato al Ministero dell’interno con il numero d’ordine 51, ma nessuno immagina la faccia del depositante nell’accorgersi che qualcuno, in bacheca, aveva già piazzato da ore – col numero 9 – il simbolo «Rinascimento italiano – Lista Dini». Anche qui cerchio di fondo blu scuro, la dicitura «LISTA Dini» nella parte superiore (in tondo invece che in corsivo, ma non è che spostasse molto), il resto del nome del partito in quella inferiore, con tanto di striscia orizzontale tricolore e un arco di quindici stelle gialle a contorno di tutto. Una clonazione in piena regola, per di più giustificata dal fatto che, a guidare la lista, è tale «Dini Mariano detto Lamberto».
Nel centrodestra si ridacchia parecchio, anche tra i radicali allora schierati con Berlusconi («Che tecnici sprovveduti, si sono fatti soffiare il simbolo – dichiara divertito il radical-forzista Peppino Calderisi – Forza Italia due anni fa restò per venti giorni davanti al portone del Viminale per evitare appunto che qualcuno copiasse... ») al punto che si pensa proprio a uno scherzone di quegli esperti di legislazione elettorale presenti tra i radicali (a la Calderisi, appunto), nonostante le smentite immediate degli interessati. Si ride meno – è ovvio – nell’entourage di Lamberto Dini, perché per la regola prior in tempore potior in iure (in soldoni, chi prima arriva, meglio alloggia), il loro simbolo rischia seriamente di saltare, essendo stato depositato dopo; a complicare le cose, almeno un’altra lista chiamata «DINI – Rinnovamento italiano», ove Dini non è il cognome del Presidente del Consiglio uscente, ma l’acronimo di «Domani insieme (per una) nuova Italia» (impagabile, non c’è che dire).

venerdì 21 dicembre 2012

Fratelli d'Italia, La Russa s'è desto...

Alla fine hanno beffato tutti (me compreso, ovviamente). Dall'inizio avevamo notato come quel possibile contrassegno di "Centrodestra nazionale" avrebbe immediatamente rimandato alla simbologia di An, senza nemmeno troppa fantasia, con quel "nazionale" già nel posto in cui era prima e le corde tricolori inserite più per vezzo, che per artificio grafico. Mancava la fiamma, ma la paternità del simbolo era ben chiara.
Invece poche ore fa Ignazio La Russa, Guido Crosetto e Giorgia Meloni hanno tirato fuori qualcosa di diverso, come se ci si aspettasse un fante di picche e ci si trovasse scodellato un re, sia pure dello stesso seme. Nel simbolo del loro nuovo soggetto politico, infatti, sono rimaste le corde ( “Tre corde legate, una verde, una bianca e una rossa, in un nodo che non si può slegare”, ha detto lo stesso Crosetto) e la parte superiore azzurra; anche la dicitura "Centrodestra nazionale" è rimasta, ma è adagiata sottilmente sulla parte inferiore del bordo del contrassegno, nel segmento bianco. Il posto più evidente, nella parte superiore, se l'è conquistato il nuovo nome del soggetto politico, "Fratelli d'Italia", scritto con lo stesso font, su per giù, usato per il Pdl.
Forse qualcuno doveva avere notato che il termine "Nazionale", nella posizione precedente, era a rischio di bocciatura da parte del Ministero dell'Interno e il rischio da correre era decisamente troppo;  forse non si voleva quella somiglianza così forte, visto che Crosetto non veniva certo da An ma non può non colpire il ragionamento possibile di La Russa & co.: non bastava il tricolore, occorreva anche mettere le mani sul primo verso dell'inno nazionale italiano. Il comportamento, in sé, è lecito, non sembra proprio che vi siano ostacoli giuridici: l'opera, in sé, si chiama Canto degli Italiani e, in ogni caso, è caduta in pubblico dominio (difficilmente Goffredo Mameli potrebbe dolersene, se non in un'improbabile seduta spiritica). La scelta, tuttavia, mostra che - forse anche su ispirazione dello stesso Crosetto - la lezione del Cavaliere e del suo staff è stata pienamente assimilata: lui, infatti, nel 1994 ha chiamato il suo movimento "Forza Italia" appropriandosi dell'esultanza calcistica dei tifosi degli azzurri (e non a caso i forzisti si facevano chiamare "azzurri", sebbene non ce ne fosse traccia nel simbolo). La Russa, Meloni e Crosetto fanno qualcosa di molto simile, rivendicando in qualche modo la propria identificazione con uno dei simboli ufficiosi della Repubblica (e, guarda caso, uno degli elementi immancabili delle partite della Nazionale di calcio e non solo).
Un rischio, piccolo o grande che sia, comunque c'è: dopo la fondazione di Forza Italia, chi non era seguace di Berlusconi ebbe vergogna o per lo meno difficoltà a pronunciare di nuovo quelle due parole, anche solo allo stadio o davanti a una partita dei mondiali. E se, a questo punto, si allargasse la schiera di coloro che hanno in antipatia l'inno di Mameli? I Fratelli, in quel caso, potrebbero assottigliarsi molto: praticamente, dei figli unici.

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Appendice del 22 dicembre
A parziale correzione di quanto già scritto, devo dare atto che più probabilmente il contrassegno ufficiale del partito non sia quello mostrato sopra, bensì uno dei due riportati qui a fianco, in particolare il secondo (è quello che effettivamente si vede nelle mani di Crosetto, della Meloni e di La Russa all'atto della presentazione).
Naturalmente, stando così le cose, non si può più dire che il font utilizzato per la dicitura "Fratelli d'Italia" sia affine a quello che è ancora utilizzato dal Pdl. Al contrario, il carattere è relativamente simile a quello usato nel contrassegno di Alleanza nazionale, come la foggia di alcune lettere dimostra agevolmente (sebbene mancasse nell'emblema di An l'ombra nera al di sotto dei caratteri).
Al più, viene spontaneo dire che è entrata pesantemente in gioco la componente del "fai-da-te", nel senso che ogni gruppo locale, in attesa del contrassegno "ufficiale", ha voluto provvedere in modo autonomo e rapido, volendo imitare il simbolo mostrato alla stampa avvicinandosi il più possibile a quell'immagine. Merito (o colpa, a seconda) dell'inventiva dei singoli e di Photoshop.