"Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo". Quante volte si è ripetuto questo frammento del libro di Qoelet (o Ecclesiaste, per chi era affezionato al vecchio nome biblico), a proposito e a sproposito di ogni cosa, magari semplicemente per giustificare una scelta sbagliata, una decisione ragionevole presa nel momento sbagliato o, semplicemente, per dire che era arrivato il momento di cambiare musica rispetto al passato? Di certo moltissime, probabilmente troppe. Solo una persona, tuttavia, avrebbe potuto ben dire, parafrasando una delle sentenze successive di quel capitolo di Qoelet, che "c'è un Tempo per dirigere e un Tempo per candidarsi". La maiuscola, peraltro abbinata al corsivo, non è affatto casuale e non è nemmeno una mera maiuscola di rispetto: è semplicemente dovuta, visto che la persona in questione si chiamava Renato Angiolillo.
Chi ha un minimo di pratica con la storia del giornalismo e della politica italiana ha certamente già capito che si è di fronte a colui che, il 5 giugno 1944, aveva fondato ufficialmente Il Tempo, il più longevo dei quotidiani romani (pur se con respiro nazionale) e che ne rimase direttore fino alla sua morte, nel 1973 (essendone anche proprietario/editore per alcuni anni). A dirla tutta, anche alcuni suoi successori alla direzione della testata alle elezioni politiche sono riusciti a farsi eleggere (è il caso di Giovanni Mottola) o si sono candidati con meno fortuna (come Mario Sechi), né si può dimenticare il caso decisamente unico di Gianni Letta, per anni parte del mondo politico al fianco di Silvio Berlusconi senza mai una candidatura o addirittura un'iscrizione a un partito. Soltanto Renato Angiolillo - anzi, "Angiolillo Renato Massimo", come si leggeva sulla scheda elettorale - si è candidato ed è riuscito a diventare parlamentare con la lista del Tempo.
Che il fondatore del giornale che da anni ha sede a palazzo Wedekind su piazza Colonna (ma nell'immediato dopoguerra la sede era in piazza di Pietra) fosse diventato senatore della Repubblica nelle prime elezioni politiche successive al voto per la Costituente era cosa nota; meno ricordato fu il fatto che proprio la testata - acquistata da Angiolillo in periodo di occupazione nazista - a contrassegnare la sua candidatura. Quest'ultima era maturata grazie alla posizione peculiare del quotidiano, di impostazione nettamente conservatrice, ma aperta ai contributi degli intellettuali di ogni fronte, a quelli della Repubblica e a quelli post-fascisti: nell'Italia impegnata nella ricostruzione e nella scrittura della Costituzione, con non poche frizioni sul piano politico e parecchi "conti aperti" con l'immediato passato, Angiolillo - senza mai scrivere di proprio pugno sul giornale - invitava alla pacificazione nazionale e a concentrare le energie sul futuro.
Su queste basi, non stupisce che più di una forza politica, in particolare legata a quell'area conservatrice-borghese che aveva trovato nel Tempo un punto di riferimento, abbia ritenuto naturale proporre a Renato Angiolillo di candidarsi alle elezioni. Già il 23-24 febbraio 1948 sull'edizione della notte del Corriere d'informazione si leggeva che il direttore del quotidiano romano si sarebbe candidato in collegamento con la Democrazia cristiana "ma come indipendente" al Senato a Bari; il giorno dopo il Corriere confermava la notizia. Il collegio scelto non era affatto casuale: proprio a Bari era stato a lungo negli anni '30, dedicandosi all'editoria pubblicitaria (raccontando la Puglia d'oro attraverso le sue famiglie più illustri.
La questione del collegamento era assolutamente rilevante: dal momento che al Senato la competizione era in collegi uninominali all'interno della stessa circoscrizione regionale, la legge elettorale per quel ramo del Parlamento (legge n. 29/1948) prevedeva che ciascuna persona interessata presentasse la propria candidatura (corredata da almeno 300 e non oltre 500 firme di elettori del collegio e, come si vedrà, dal contrassegno) e gli uffici elettorali circoscrizionali potevano accoglierla entro il 35° giorno precedente il voto. Entro il 30° giorno, invece, ogni persona candidata doveva dichiarare "con quali candidati di altri collegi della Regione intende[sse] collegarsi" (e i collegamenti ovviamente dovevano essere reciproci): in Molise ci si poteva collegare a un solo candidato, altrove occorreva legarsi almeno ad altre due candidature (e, visto che ciascuno poteva candidarsi anche in tre collegi nella Regione prescelta, era permesso che l'aspirante senatore/senatrice si collegasse con sé stesso/a).
Tornando ad Angiolillo, oltre alla Democrazia cristiana, anche il Partito liberale italiano mostrò interesse per la sua figura e, alla fine, fu proprio quell'area a intestarsi la candidatura. Il "gruppo Angiolillo", cioè i candidati con cui lui si collegò, fu composto essenzialmente da persone che si presentavano sotto le insegne del Blocco nazionale, che oltre ai liberali comprendeva anche i candidati del Fronte dell'Uomo qualunque e i nittiani dell'Unione per la ricostruzione nazionale. C'erano però debite eccezioni: la legge elettorale, infatti, ammetteva espressamente "il collegamento tra candidati aventi diverso contrassegno" e, nel richiedere che chi aspirava a candidarsi depositasse un modello di contrassegno senza esigere che questo fosse uno di quelli già presentati al Ministero dell'interno, di fatto consentiva alle singole persone candidate di correre davvero da indipendenti, pur essendo collegate ad almeno altre due della stessa Regione.
A Monopoli, per esempio, il candidato era Giuseppe Manfredi (o Manfridi) del Partito nazionale monarchico (con il classico simbolo di stella e corona), mentre oltre a quella di Angiolillo c'era un'altra candidatura indipendente, sempre proveniente dal mondo del giornalismo: Leonardo Azzarita (in seguito direttore generale dell'Ansa e del Corriere delle Puglie) aveva scelto di distinguersi con l'immagine di due bandiere incrociate, che peraltro richiamavano quella del Pli. Angiolillo, invece, non espresse alcuna assonanza politica nel suo emblema, ma trasformò nel proprio marchio l'esperienza che lo aveva impegnato negli ultimi anni e aveva creato le condizioni per la sua candidatura. Non fu il solo ad adottare come emblema un orologio e, in particolare da tasca, come a dire che era il momento di scegliere (possibilmente proprio la persona che aveva schierato l'orologio); lui però rese quel contrassegno unico e totalmente a sua misura, facendo riprodurre la testata del suo giornale sul quadrante della "cipolla". In teoria si era di fronte a una tautologia, a un concetto al quadrato, essendo ripetuto nel testo e in grafica; eppure in quel momento non sembrò esserci una soluzione più indicata per Renato Angiolillo che identificare in pieno la sua proposta elettorale con il quotidiano da lui fondato e diretto.
Che quella candidatura, intestata ai liberali, avesse comunque anche il placet almeno della Dc poteva evincersi dal fatto che, in quel collegio, i democristiani non presentarono candidature col loro simbolo (alla pari dei liberali, ma a dire il vero sulla scheda non finì nemmeno il simbolo del Msi: si videro solo quelli del Pri, del Psdi, dei monarchici e ovviamente Garibaldi con la stella per il Fronte democratico popolare). Il risultato fu pressoché scontato: con 45.732 voti, pari al 51,42%, Angiolillo fu il più votato del suo gruppo e venne eletto a Palazzo Madama, dove aderì al gruppo liberale. Finita la prima legislatura, nel 1953 si ricandidò direttamente con il Pli, sempre al Senato ma in quell'occasione nel collegio di Rieti: superato lì dai candidati di Dc, Pci, Psi e Msi, non fu rieletto.
Probabilmente quella mancata riconferma non gli avrà fatto del tutto piacere ma, come c'era stato un Tempo per candidarsi, arrivò di nuovo il Tempo per dirigere, ovviamente Il Tempo, al cui timone Renato Angiolillo sarebbe rimasto altri vent'anni. Avrebbe contato ancora molto nel giornalismo e nella politica, così come avrebbe esercitato notevole influenza dopo la sua morte la moglie Maria Girani, che definire "la regina dei salotti romani" era probabilmente riduttivo (chiedere a Gianni Letta, che fu direttore dopo Angiolillo per quattordici anni, per averne cerimoniosa conferma). Di certo, a guardare oggi quel simbolo che nel 1948 portò all'elezione del fondatore del Tempo, appare assai più sensato e ben pensato (e persino bello da vedere), rispetto a molti emblemi che affollano le schede o vorrebbero arrivarci, ma sono brutti anche se concepiti nell'era di Photoshop. O forse, chissà, proprio per questo.
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