La partita che riguarda il turno elettorale che si sarebbe dovuto svolgere alla fine della primavera e che è stato rinviato a causa dell'emergenza legata alla pandemia da Covid-19 sembra ancora aperta. Fino a qualche manciata di ore fa sembrava ormai certo il voto per elezioni suppletive, comunali e referendum costituzionale nei giorni del 20 e 21 settembre, così come sembrava inevitabile che le elezioni regionali sarebbero state convocate per gli stessi giorni: ciò permetteva di ragionare su dati oggettivi per determinare gli adempimenti necessari e le scadenze relative alle varie competizioni in vista. Ora, mentre si allungano i tempi - principalmente per un disegno ostruzionistico e dilatorio di Fratelli d'Italia - per l'approvazione alla Camera della legge di conversione del decreto-legge n. 26/2020, che ha permesso il rinvio delle elezioni comunali e regionali, spuntano o riemergono incertezze, problemi e tensioni.
Il quadro è complesso e merita di essere analizzato con cura pezzo per pezzo, anche nelle sue ricadute in tema di simboli e presentazione delle liste. Anche perché non è indifferente scegliere una data o un'altra per il voto, ma nemmeno agire sul procedimento elettorale e (appunto) sugli adempimenti e sulle scadenze che a questo si connettono.
Si tratterebbe di una situazione davvero delicata, da evocare giusto al fine di evitarla. Conseguenza immediata della decadenza sarebbe il venir meno del prolungamento della durata delle amministrazioni comunali e regionali uscenti: almeno in teoria, il governo (in particolare la ministra dell'interno) dovrebbe senza alcun ritardo indicare per le elezioni comunali la prima data utile. Guardando all'art. 3 della legge n. 182/1991 (che disciplina lo svolgimento delle elezioni amministrative), la data - meglio: la doppia giornata - dovrebbe essere fissata dal Viminale "non oltre il 50° giorno precedente quello della votazione" (con immediata comunicazione ai prefetti, che materialmente convocano i comizi elettorali): se il ministero provvedesse nelle ore successive alla decadenza del decreto, si dovrebbe votare per forza il 9 e il 10 agosto, visto che il 9 cade giusto al 50° giorno a partire dal 20 giugno; la data si allontanerebbe se si ammettesse che il Viminale - in analogia a quanto previsto dalla citata sentenza n. 36/2019 del Tar Basilicata, vista quando si parlava di accorpamento delle elezioni - ha tempo al massimo 20 giorni per convocare le elezioni, sempre con un anticipo di almeno 50 giorni sulla data del voto. Fino a tale data, ovviamente, resterebbero in carica le amministrazioni uscenti ma - essendo già scadute - dovrebbero farlo in regime di prorogatio, dunque con poteri limitati.
E le regionali? La situazione sarebbe sulla carta ancora più problematica: convocare i rispettivi comizi elettorali toccherebbe proprio a ciascun Presidente di Regione (in base al contenuto dei vari statuti), a mandato scaduto per la decadenza del decreto e dunque in regime di prorogatio; regime che inevitabilmente durerebbe per un altro paio di mesi.
Già solo su queste basi si capisce perché sarebbe del tutto inopportuno rischiare uno scenario simile. Si deve anche riconoscere che, per queste stesse ragioni, qualcuno potrebbe cercare di rintracciare presupposti per la reiterazione del decreto, sostenendo che questo potrebbe essere "fondato su autonomi (e, pur sempre, straordinari) motivi di necessità ed urgenza" (citando la sentenza n. 360/1996 della Corte costituzionale, con cui si era posto un limite alla reiterazione dei decreti-legge): il trovarsi un numero così ampio di enti in regime di prorogatio (dunque con gravi limiti all'azione) e l'incertezza sugli sviluppi della pandemia potrebbero anche costituire ragioni con un fondo di ragionevolezza; sarebbe poi difficile risolvere eventuali problemi legati alla decadenza del decreto con lo strumento della regolazione dei "rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti" (previsto dall'art. 77, ultimo comma Cost.), inadatto all'evidenza a porre rimedio a situazioni di questo tipo in cui i rapporti giuridici c'entrano poco. Dall'altro lato, per chi contestasse la soluzione di un nuovo decreto-fotocopia sarebbe facile citare la stessa sentenza n. 360/1996, per la quale i motivi alla base del nuovo decreto "in ogni caso, non potranno essere ricondotti al solo fatto del ritardo conseguente dalla mancata conversione del precedente decreto" e il contenuto del nuovo decreto "non potrà porsi in un rapporto di continuità sostanziale con il decreto non convertito". Basta lo spettro di tale scenario incerto e ricco di contese a suggerire di non arrivare alla decadenza del "decreto elezioni 2020".
L'irritazione delle Regioni verso il Governo e il Parlamento, al punto da aver fatto loro parlare di "palese violazione del principio di leale collaborazione tra le istituzioni", è stata generata dall'approvazione nella seduta di lunedì 8 giugno dell'emendamento 1.650 a prima firma del deputato di Forza Italia Francesco Paolo Sisto: con esso, in sostanza, si è ridotta la "finestra" entro cui convocare le sole elezioni regionali, facendola partire dal 15 settembre e tagliando fuori di conseguenza le prime due domeniche del mese come primo giorno utile di votazione. Sisto aveva spiegato che l'emendamento voleva evitare "una serie di arbitri da parte di chi poteva decidere il voto regionale", situazioni che avrebbero potuto confondere l'elettore e che si sarebbero potute evitare dicendo chiaramente che "non si può andare al voto, alle regionali, prima del 15 di settembre" ed evitando ogni altro "balbettio" sulle date; sull'emendamento la relatrice Anna Bilotti (M5S) aveva espresso parere favorevole e il governo si era espresso allo stesso modo. Le Regioni, però, ritengono che la determinazione della data delle elezioni sia interamente di loro competenza. Esse, evidentemente, sono convinte che la determinazione della "finestra", soprattutto in questo momento eccezionale, non rientri nell'ambito dei "principi fondamentali" in materia elettorale previsti dall'art. 122, comma 1 Cost.; questo, nonostante proprio l'art. 5 della legge n. 165/2004 - che appunto fissa questi principi - nel determinare la durata degli organi regionali stabilisca anche il termine entro il quale devono tenersi le nuove elezioni.
Difficile dire quante possibilità abbiano le Regioni di convocare davvero le loro elezioni per una data anteriore al 15 settembre: l'approvazione del citato emendamento Sisto è parso un segnale chiaro della contrarietà alla posizione delle Regioni da parte della maggioranza del Parlamento, come per invitare i presidenti a desistere; è altrettanto significativo che l'emendamento votato sia stato presentato da deputati e deputate di Forza Italia, partito che non appartiene alla maggioranza di governo ma sembra mostrarsi meno chiuso a determinate offerte di collaborazione o comunque meno bellicoso.
Certo è che, nell'ipotesi in cui le Regioni decidessero davvero di indire le elezioni per il 6 e 7 settembre (e c'è da scommettere che, in quel caso, ci sarebbe più di un ricorso contro quelle decisioni), i contrassegni, le candidature, le firme a sostegno e gli altri documenti necessari dovrebbero essere consegnati tutti entro le ore 12 dell'8 agosto. In tutte le Regioni chiamate al voto in questo turno elettorale, che abbiano normato espressamente la presentazione delle liste (Veneto, Toscana, Marche e, almeno in parte, Puglia) o che, non avendo emanato disposizioni specifiche in materia, applicano semplicemente la normativa nazionale (Liguria, Campania) vale infatti la regola in base alla quale i documenti relativi alle candidature si presentano ai rispettivi uffici elettorali "dalle ore 8 del 30° giorno alle ore 12 del 29° giorno antecedenti quelli della votazione". Vale peraltro la pena di precisare che quest'osservazione riguarda le leggi elettorali regionali vigenti: le Regioni potrebbero sempre decidere di modificarle, anche in maniera radicale e anche a proposito di questi passaggi.
A formulare la richiesta di votare all'inizio di settembre sono stati presidenti di Regione di colore politico diverso. Appare evidente, tuttavia, che una soluzione simile farebbe infuriare Fratelli d'Italia, convinta che una campagna elettorale condotta quasi interamente in agosto sarebbe insostenibile da vari punti di vista (compresi i danni che arrecherebbe al settore turistico in piena stagione estiva) e, soprattutto, aggraverebbe lo squilibrio tra i presidenti uscenti in cerca di riconferma, sovraesposti in queste settimane, e gli altri candidati, che avrebbero a quel punto pochissimo tempo per preparare le candidature e farsi conoscere adeguatamente a elettrici ed elettori. Senza contare che, a quel punto, non è affatto detto che come data unica per il voto (referendum compreso) si scelga quella, con ciò che ne consegue in termini di maggiori spese (e chiusure non scongiurate delle scuole).
Se il tempo a disposizione per una campagna "equa" è da giorni uno degli argomenti più richiamati da Fratelli d'Italia, nella seduta di martedì si è registrata una proposta avanzata a titolo personale da Piero Fassino (Pd): questi, riconoscendo come "non privo di senso" l'argomento di chi lamenta la scomodità di depositare liste, firme e documenti a metà agosto inoltrata e di raccogliere tutto nei giorni precedenti, ha proposto di anticipare i tempi di deposito delle candidature: "Si usa il mese di giugno e di luglio per fare le liste, raccogliere le firme, le si depositano il 31 luglio e la gente va in ferie tranquilla tutta e si vota il 20 settembre". Un risultato da ottenere con un semplice emendamento della relatrice. La proposta è stata ribattuta ieri dal deputato dem e costituzionalista Stefano Ceccanti: "La legge sulla par condicio - ha detto in aula - funziona con una scansione in due tempi. Fase uno: c'è una par condicio che si attiva col decreto di indizione, che vale per le forze politiche già rappresentate; fase due: si presentano le candidature e la par condicio scatta sulle candidature. Allora, è chiaro che, se noi spostiamo i termini della presentazione delle candidature, si espande la fase due".
In sostanza, se tra l'indizione delle elezioni e l'ammissione delle candidature ci sono meno garanzie per chi non è rappresentato nelle aule e anche per chi è minoranza, anticipare la presentazione delle candidature alla fine di luglio o alla prima settimana di agosto tenendo ferma la data del voto - se si ritiene che il 20 e il 21 settembre siano "data baricentrica", per riprendere un'espressione impiegata proprio da Ceccanti, rispetto alle richieste delle Regioni e a quelle delle opposizioni - significa che la campagna elettorale vera e propria dura non quattro settimane ma sei o sette, durante le quali si applicano le norme più garantiste sulla par condicio a tutti i candidati, che in questo caso sono noti prima. Una scelta simile, ovviamente, dovrebbe comportare secondo il costituzionalista "massima flessibilità poi sugli strumenti pratici e su come scriverl[a]": ci si permette di dire, per esempio, che avere due o tre settimane in meno per la raccolta firme potrebbe richiedere o almeno suggerire un ulteriore taglio delle firme richieste per le sole elezioni regionali o misure simili. Il che vorrebbe dire anche spianare la strada - per chi sa come e dove raccogliere le sottoscrizioni - a liste dai simboli furbetti, che alle regionali servono sempre, per raccattare voti o anche solo per non farli prendere a qualcun altro.
Una soluzione simile, invece, per Ceccanti non sarebbe compatibile col dettato costituzionale: così si toccherebbe "il cuore delle leggi elettorali regionali, che si basano sull'idea che un candidato presidente di regione esiste perché ha delle liste di appoggio. Quindi, non sarebbe un intervento minimale, sarebbe un intervento che noi, dal centro, prendiamo le leggi elettorali regionali e le riscriviamo nel cuore: questo l'articolo 122 non ce lo consente". Per il deputato e costituzionalista, quindi, prevedere che basti indicare una candidatura a presidente per far scattare la par condicio com'è nella "fase due" quando ancora non ci sono liste a suo sostegno (senza le quali la candidatura a presidente non sarebbe ammessa; molte Regioni tra l'altro esigono che una lista sia presente, avendo raccolto firme sufficienti, in almeno metà delle circoscrizioni perché il simbolo finisca sulla scheda) non tocca solo le norme sulla par condicio, di solito intese come norme "di contorno", ma stravolge pure le leggi elettorali regionali. Meglio sarebbe, allora, scegliere comunque il prima possibile la persona da contrapporre al presidente uscente, così da conquistare prima l'attenzione dei media e degli elettori.
La questione oggettivamente è molto scivolosa, per varie ragioni. Da un certo punto di vista si può comprendere, conoscendo soprattutto la verve di Francesco Paolo Sisto, che un conto è fare le cose, un altro è volerle fare e un altro ancora è dire di volerle fare, per cui se tutti lo si vuole quasi per ogni esigenza si può trovare una soluzione, anche quando è borderline (lo stesso Ceccanti ha ricordato come l'intervento per tagliare le firme anche per le regionali sia "ai limiti della compatibilità costituzionale"). Le disposizioni, tuttavia, devono essere tenute seriamente in conto. Così, l'art. 122 Cost., nel delineare la competenza regionale in materia di "sistema di elezione", entro i principi fondamentali stabiliti con legge statale, è stato puntualmente interpretato - dalle Regioni stesse, ma anche dalla dottrina maggioritaria e dalla Corte costituzionale - in modo estensivo: le Regioni sono ritenute competenti a regolare non solo il sistema elettorale (per trasformare i voti in seggi) e il meccanismo di assegnazione dei seggi, ma anche in generale il procedimento elettorale. Si può dire che la par condicio appartiene piuttosto alla legislazione elettorale "di contorno", ma non per questo pare che le Regioni possano essere escluse dalla competenza in materia.
La "legge della Repubblica" con cui si dettano i principi fondamentali in materia di elezioni regionali, peraltro, contiene una disposizione qui rilevante. All'art. 4, tra i principi che limitano la potestà legislativa regionale c'è la "contestualità dell'elezione del Presidente della Giunta regionale e del Consiglio regionale, se il Presidente è eletto a suffragio universale e diretto", cosa che avviene per tutte le Regioni interessate dal voto; si prevede però anche l'ipotesi di un presidente della Regione non eletto a suffragio universale e diretto, dovendosi comunque prevedere l'elezione (evidentemente da parte del consiglio regionale) entro 90 giorni. In entrambe le fattispecie, emerge la centrale importanza del deposito delle candidature al consiglio regionale: l'elezione del presidente, se diretta, non può essere disgiunta da quella del consiglio per cui le candidature devono per forza essere collegate e venire contemporaneamente a esistenza: ove non sia diretta, essa è un'elezione di secondo grado che inevitabilmente è subordinata alla valida presentazione di candidature per il consiglio regionale. Certamente quel principio si può cambiare (ammesso che convenga), ma se lo si fa occorre farlo in modo esplicito, tanto più di fronte a una legge che si richiama espressamente all'art. 122 Cost.
Esiste poi un argomento decisamente pratico, che non depone a favore dell'utilità della soluzione di cui ha parlato Sisto. In base all'art. 4, comma 2, lett. a) della legge n. 28/2000 (quella sulla par condicio), tra la convocazione dei comizi e la presentazione delle candidature gli spazi tra le forze politiche sono divisi tra i "soggetti politici presenti nelle assemblee da rinnovare, nonché tra quelli in esse non rappresentati purché presenti nel Parlamento europeo o in uno dei due rami del Parlamento". Se, come si è visto, il deputato forzista ha chiesto di dare pari spazio ai candidati delle forze presenti in consiglio o in Parlamento (e che incidentalmente sono di solito anche esenti dalla raccolta firme), questa parità è di fatto già prevista per quelle forze politiche e potrebbe utilmente essere completata - senza bisogno di una legge - con l'indicazione del candidato o della candidata nel tempo più breve possibile, così da concentrare su di lui/lei gli spazi a disposizione della forza politica in procinto di presentare una lista.
L'esame del disegno di legge di conversione proseguirà nel pomeriggio di oggi, nell'attesa di scoprire se ulteriori contatti in sede di "comitato dei nove" avranno portato qualche progresso rilevante in materia di campagna elettorale e presentazione delle candidature. Un anticipo dei tempi potrebbe scoraggiare la presentazione di liste, ma eventuali ulteriori tagli alle firme richieste (anche se su quegli emendamenti il voto c'è già stato) potrebbe risultare allettante per qualcuno e far comparire un simbolo sulla scheda con pochissime sottoscrizioni. In fondo è questione di numeri, di date e, ovviamente, di interessi contrapposti.
Il quadro è complesso e merita di essere analizzato con cura pezzo per pezzo, anche nelle sue ricadute in tema di simboli e presentazione delle liste. Anche perché non è indifferente scegliere una data o un'altra per il voto, ma nemmeno agire sul procedimento elettorale e (appunto) sugli adempimenti e sulle scadenze che a questo si connettono.
Decadenza del decreto alle porte
L'unica certezza incrollabile è che il "decreto elezioni 2020" sarà vigente fino al 19 giugno ed entro quel giorno dovrà completarsi l'esame del disegno di legge di conversione (con l'approvazione del medesimo testo da parte di entrambe le Camere), altrimenti - come prevede l'articolo 77, comma 3 della Costituzione - il decreto decadrà, perdendo efficacia fin dall'inizio.Si tratterebbe di una situazione davvero delicata, da evocare giusto al fine di evitarla. Conseguenza immediata della decadenza sarebbe il venir meno del prolungamento della durata delle amministrazioni comunali e regionali uscenti: almeno in teoria, il governo (in particolare la ministra dell'interno) dovrebbe senza alcun ritardo indicare per le elezioni comunali la prima data utile. Guardando all'art. 3 della legge n. 182/1991 (che disciplina lo svolgimento delle elezioni amministrative), la data - meglio: la doppia giornata - dovrebbe essere fissata dal Viminale "non oltre il 50° giorno precedente quello della votazione" (con immediata comunicazione ai prefetti, che materialmente convocano i comizi elettorali): se il ministero provvedesse nelle ore successive alla decadenza del decreto, si dovrebbe votare per forza il 9 e il 10 agosto, visto che il 9 cade giusto al 50° giorno a partire dal 20 giugno; la data si allontanerebbe se si ammettesse che il Viminale - in analogia a quanto previsto dalla citata sentenza n. 36/2019 del Tar Basilicata, vista quando si parlava di accorpamento delle elezioni - ha tempo al massimo 20 giorni per convocare le elezioni, sempre con un anticipo di almeno 50 giorni sulla data del voto. Fino a tale data, ovviamente, resterebbero in carica le amministrazioni uscenti ma - essendo già scadute - dovrebbero farlo in regime di prorogatio, dunque con poteri limitati.
E le regionali? La situazione sarebbe sulla carta ancora più problematica: convocare i rispettivi comizi elettorali toccherebbe proprio a ciascun Presidente di Regione (in base al contenuto dei vari statuti), a mandato scaduto per la decadenza del decreto e dunque in regime di prorogatio; regime che inevitabilmente durerebbe per un altro paio di mesi.
Già solo su queste basi si capisce perché sarebbe del tutto inopportuno rischiare uno scenario simile. Si deve anche riconoscere che, per queste stesse ragioni, qualcuno potrebbe cercare di rintracciare presupposti per la reiterazione del decreto, sostenendo che questo potrebbe essere "fondato su autonomi (e, pur sempre, straordinari) motivi di necessità ed urgenza" (citando la sentenza n. 360/1996 della Corte costituzionale, con cui si era posto un limite alla reiterazione dei decreti-legge): il trovarsi un numero così ampio di enti in regime di prorogatio (dunque con gravi limiti all'azione) e l'incertezza sugli sviluppi della pandemia potrebbero anche costituire ragioni con un fondo di ragionevolezza; sarebbe poi difficile risolvere eventuali problemi legati alla decadenza del decreto con lo strumento della regolazione dei "rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti" (previsto dall'art. 77, ultimo comma Cost.), inadatto all'evidenza a porre rimedio a situazioni di questo tipo in cui i rapporti giuridici c'entrano poco. Dall'altro lato, per chi contestasse la soluzione di un nuovo decreto-fotocopia sarebbe facile citare la stessa sentenza n. 360/1996, per la quale i motivi alla base del nuovo decreto "in ogni caso, non potranno essere ricondotti al solo fatto del ritardo conseguente dalla mancata conversione del precedente decreto" e il contenuto del nuovo decreto "non potrà porsi in un rapporto di continuità sostanziale con il decreto non convertito". Basta lo spettro di tale scenario incerto e ricco di contese a suggerire di non arrivare alla decadenza del "decreto elezioni 2020".
Quando votare: le richieste delle Regioni, l'emendamento Sisto
Una volta spiegato perché conviene a tutti completare il percorso di conversione del decreto-legge nei tempi prescritti, continua a pesare come un macigno la posizione dei presidenti delle Regioni, ribadita più volte nel giro di pochi giorni. L'ultima comunicazione risale al 9 giugno, nella lettera inviata al presidente del Consiglio, ai ministri Francesco Boccia, Luciana Lamorgese e Federico D'Incà dal presidente della Conferenza delle Regioni Stefano Bonaccini (Emilia-Romagna) e dal suo vice Giovanni Toti (Liguria): in quel documento i presidenti, a nome di tutti i presidenti (uscenti) delle Regioni interessate dal voto, hanno ribadito la posizione della Conferenza delle Regioni "precedentemente assunta in merito alla finestre elettorali" e annunciato "l'intenzione delle Regioni interessate di utilizzare la prima domenica utile del mese di settembre per l’indizione delle elezioni regionali, anche al fine di garantire il regolare avvio dell’anno scolastico e di limitare l’eventuale nuovo rischio epidemiologico". Ciò significherebbe votare il 6 e il 7 settembre, o per lo meno avrebbe significato questo.fino a qualche manciata di ore fa.L'irritazione delle Regioni verso il Governo e il Parlamento, al punto da aver fatto loro parlare di "palese violazione del principio di leale collaborazione tra le istituzioni", è stata generata dall'approvazione nella seduta di lunedì 8 giugno dell'emendamento 1.650 a prima firma del deputato di Forza Italia Francesco Paolo Sisto: con esso, in sostanza, si è ridotta la "finestra" entro cui convocare le sole elezioni regionali, facendola partire dal 15 settembre e tagliando fuori di conseguenza le prime due domeniche del mese come primo giorno utile di votazione. Sisto aveva spiegato che l'emendamento voleva evitare "una serie di arbitri da parte di chi poteva decidere il voto regionale", situazioni che avrebbero potuto confondere l'elettore e che si sarebbero potute evitare dicendo chiaramente che "non si può andare al voto, alle regionali, prima del 15 di settembre" ed evitando ogni altro "balbettio" sulle date; sull'emendamento la relatrice Anna Bilotti (M5S) aveva espresso parere favorevole e il governo si era espresso allo stesso modo. Le Regioni, però, ritengono che la determinazione della data delle elezioni sia interamente di loro competenza. Esse, evidentemente, sono convinte che la determinazione della "finestra", soprattutto in questo momento eccezionale, non rientri nell'ambito dei "principi fondamentali" in materia elettorale previsti dall'art. 122, comma 1 Cost.; questo, nonostante proprio l'art. 5 della legge n. 165/2004 - che appunto fissa questi principi - nel determinare la durata degli organi regionali stabilisca anche il termine entro il quale devono tenersi le nuove elezioni.
Difficile dire quante possibilità abbiano le Regioni di convocare davvero le loro elezioni per una data anteriore al 15 settembre: l'approvazione del citato emendamento Sisto è parso un segnale chiaro della contrarietà alla posizione delle Regioni da parte della maggioranza del Parlamento, come per invitare i presidenti a desistere; è altrettanto significativo che l'emendamento votato sia stato presentato da deputati e deputate di Forza Italia, partito che non appartiene alla maggioranza di governo ma sembra mostrarsi meno chiuso a determinate offerte di collaborazione o comunque meno bellicoso.
Certo è che, nell'ipotesi in cui le Regioni decidessero davvero di indire le elezioni per il 6 e 7 settembre (e c'è da scommettere che, in quel caso, ci sarebbe più di un ricorso contro quelle decisioni), i contrassegni, le candidature, le firme a sostegno e gli altri documenti necessari dovrebbero essere consegnati tutti entro le ore 12 dell'8 agosto. In tutte le Regioni chiamate al voto in questo turno elettorale, che abbiano normato espressamente la presentazione delle liste (Veneto, Toscana, Marche e, almeno in parte, Puglia) o che, non avendo emanato disposizioni specifiche in materia, applicano semplicemente la normativa nazionale (Liguria, Campania) vale infatti la regola in base alla quale i documenti relativi alle candidature si presentano ai rispettivi uffici elettorali "dalle ore 8 del 30° giorno alle ore 12 del 29° giorno antecedenti quelli della votazione". Vale peraltro la pena di precisare che quest'osservazione riguarda le leggi elettorali regionali vigenti: le Regioni potrebbero sempre decidere di modificarle, anche in maniera radicale e anche a proposito di questi passaggi.
A formulare la richiesta di votare all'inizio di settembre sono stati presidenti di Regione di colore politico diverso. Appare evidente, tuttavia, che una soluzione simile farebbe infuriare Fratelli d'Italia, convinta che una campagna elettorale condotta quasi interamente in agosto sarebbe insostenibile da vari punti di vista (compresi i danni che arrecherebbe al settore turistico in piena stagione estiva) e, soprattutto, aggraverebbe lo squilibrio tra i presidenti uscenti in cerca di riconferma, sovraesposti in queste settimane, e gli altri candidati, che avrebbero a quel punto pochissimo tempo per preparare le candidature e farsi conoscere adeguatamente a elettrici ed elettori. Senza contare che, a quel punto, non è affatto detto che come data unica per il voto (referendum compreso) si scelga quella, con ciò che ne consegue in termini di maggiori spese (e chiusure non scongiurate delle scuole).
Ritardare il voto o anticipare le firme?
Si è già visto la scorsa settimana che il gruppo Fdi insisteva - oltre che per non accorpare al voto comunale ed eventualmente regionale anche il referendum costituzionale, per la totale differenza di obiettivi e impostazione - perché i comizi elettorali venissero spostati più avanti di almeno una settimana, dunque al 27-28 settembre 2020 (con eventuale ballottaggio per i comuni non conquistati al primo turno e, sulla carta, anche per la Toscana se ce ne fossero le condizioni). Quella data certamente non eviterebbe ulteriori chiusure delle scuole (al più non produrrebbe un rientro di pochi giorni o il differimento dell'inizio delle lezioni direttamente al post-elezioni); probabilmente però sarebbe accolta con maggior favore dagli operatori del turismo (e dalle famiglie interessate ad andare in ferie a settembre), oltre che da coloro che volessero candidarsi, sia per preparare i documenti con più calma - la consegna delle liste sarebbe fissata per il 28 e il 29 agosto - sia per svolgere una campagna elettorale più lontana dalle distorsioni legate all'emergenza Covid-19.Se il tempo a disposizione per una campagna "equa" è da giorni uno degli argomenti più richiamati da Fratelli d'Italia, nella seduta di martedì si è registrata una proposta avanzata a titolo personale da Piero Fassino (Pd): questi, riconoscendo come "non privo di senso" l'argomento di chi lamenta la scomodità di depositare liste, firme e documenti a metà agosto inoltrata e di raccogliere tutto nei giorni precedenti, ha proposto di anticipare i tempi di deposito delle candidature: "Si usa il mese di giugno e di luglio per fare le liste, raccogliere le firme, le si depositano il 31 luglio e la gente va in ferie tranquilla tutta e si vota il 20 settembre". Un risultato da ottenere con un semplice emendamento della relatrice. La proposta è stata ribattuta ieri dal deputato dem e costituzionalista Stefano Ceccanti: "La legge sulla par condicio - ha detto in aula - funziona con una scansione in due tempi. Fase uno: c'è una par condicio che si attiva col decreto di indizione, che vale per le forze politiche già rappresentate; fase due: si presentano le candidature e la par condicio scatta sulle candidature. Allora, è chiaro che, se noi spostiamo i termini della presentazione delle candidature, si espande la fase due".
In sostanza, se tra l'indizione delle elezioni e l'ammissione delle candidature ci sono meno garanzie per chi non è rappresentato nelle aule e anche per chi è minoranza, anticipare la presentazione delle candidature alla fine di luglio o alla prima settimana di agosto tenendo ferma la data del voto - se si ritiene che il 20 e il 21 settembre siano "data baricentrica", per riprendere un'espressione impiegata proprio da Ceccanti, rispetto alle richieste delle Regioni e a quelle delle opposizioni - significa che la campagna elettorale vera e propria dura non quattro settimane ma sei o sette, durante le quali si applicano le norme più garantiste sulla par condicio a tutti i candidati, che in questo caso sono noti prima. Una scelta simile, ovviamente, dovrebbe comportare secondo il costituzionalista "massima flessibilità poi sugli strumenti pratici e su come scriverl[a]": ci si permette di dire, per esempio, che avere due o tre settimane in meno per la raccolta firme potrebbe richiedere o almeno suggerire un ulteriore taglio delle firme richieste per le sole elezioni regionali o misure simili. Il che vorrebbe dire anche spianare la strada - per chi sa come e dove raccogliere le sottoscrizioni - a liste dai simboli furbetti, che alle regionali servono sempre, per raccattare voti o anche solo per non farli prendere a qualcun altro.
Anticipare (solo) gli/le aspiranti è legittimo?
In sede di "comitato dei nove" - vale a dire l'organo nominato dalla commissione competente della Camera per esaminare (e anche proporre) emendamenti e sub-emendamenti al testo che si sta per esaminare - non si sarebbe però trovato un accordo. In base a quanto detto in aula da Sisto, le opposizioni avrebbero proposto di introdurre una "fattispecie a formazione progressiva" sulla par condicio, facendo scattare quest'ultima con la semplice indicazione anticipata del candidato alla presidenza della Regione e lasciando il deposito delle liste e delle firme tra il 30° e il 29° giorno prima del voto:"io prima stabilisco una candidatura [a presidente], soprattutto se non ha bisogno di sottoscrizioni - e tutte le regioni hanno la possibilità di candidati presidenti che possano essere tali senza sottoscrizioni, se appartengono a partiti presenti nella consiliatura ovvero in un ramo del Parlamento - quindi, io posso presentare la candidatura ai fini della par condicio e completare la fattispecie a formazione progressiva col deposito delle liste nel trentesimo giorno".Una soluzione simile, invece, per Ceccanti non sarebbe compatibile col dettato costituzionale: così si toccherebbe "il cuore delle leggi elettorali regionali, che si basano sull'idea che un candidato presidente di regione esiste perché ha delle liste di appoggio. Quindi, non sarebbe un intervento minimale, sarebbe un intervento che noi, dal centro, prendiamo le leggi elettorali regionali e le riscriviamo nel cuore: questo l'articolo 122 non ce lo consente". Per il deputato e costituzionalista, quindi, prevedere che basti indicare una candidatura a presidente per far scattare la par condicio com'è nella "fase due" quando ancora non ci sono liste a suo sostegno (senza le quali la candidatura a presidente non sarebbe ammessa; molte Regioni tra l'altro esigono che una lista sia presente, avendo raccolto firme sufficienti, in almeno metà delle circoscrizioni perché il simbolo finisca sulla scheda) non tocca solo le norme sulla par condicio, di solito intese come norme "di contorno", ma stravolge pure le leggi elettorali regionali. Meglio sarebbe, allora, scegliere comunque il prima possibile la persona da contrapporre al presidente uscente, così da conquistare prima l'attenzione dei media e degli elettori.
La questione oggettivamente è molto scivolosa, per varie ragioni. Da un certo punto di vista si può comprendere, conoscendo soprattutto la verve di Francesco Paolo Sisto, che un conto è fare le cose, un altro è volerle fare e un altro ancora è dire di volerle fare, per cui se tutti lo si vuole quasi per ogni esigenza si può trovare una soluzione, anche quando è borderline (lo stesso Ceccanti ha ricordato come l'intervento per tagliare le firme anche per le regionali sia "ai limiti della compatibilità costituzionale"). Le disposizioni, tuttavia, devono essere tenute seriamente in conto. Così, l'art. 122 Cost., nel delineare la competenza regionale in materia di "sistema di elezione", entro i principi fondamentali stabiliti con legge statale, è stato puntualmente interpretato - dalle Regioni stesse, ma anche dalla dottrina maggioritaria e dalla Corte costituzionale - in modo estensivo: le Regioni sono ritenute competenti a regolare non solo il sistema elettorale (per trasformare i voti in seggi) e il meccanismo di assegnazione dei seggi, ma anche in generale il procedimento elettorale. Si può dire che la par condicio appartiene piuttosto alla legislazione elettorale "di contorno", ma non per questo pare che le Regioni possano essere escluse dalla competenza in materia.
La "legge della Repubblica" con cui si dettano i principi fondamentali in materia di elezioni regionali, peraltro, contiene una disposizione qui rilevante. All'art. 4, tra i principi che limitano la potestà legislativa regionale c'è la "contestualità dell'elezione del Presidente della Giunta regionale e del Consiglio regionale, se il Presidente è eletto a suffragio universale e diretto", cosa che avviene per tutte le Regioni interessate dal voto; si prevede però anche l'ipotesi di un presidente della Regione non eletto a suffragio universale e diretto, dovendosi comunque prevedere l'elezione (evidentemente da parte del consiglio regionale) entro 90 giorni. In entrambe le fattispecie, emerge la centrale importanza del deposito delle candidature al consiglio regionale: l'elezione del presidente, se diretta, non può essere disgiunta da quella del consiglio per cui le candidature devono per forza essere collegate e venire contemporaneamente a esistenza: ove non sia diretta, essa è un'elezione di secondo grado che inevitabilmente è subordinata alla valida presentazione di candidature per il consiglio regionale. Certamente quel principio si può cambiare (ammesso che convenga), ma se lo si fa occorre farlo in modo esplicito, tanto più di fronte a una legge che si richiama espressamente all'art. 122 Cost.
Esiste poi un argomento decisamente pratico, che non depone a favore dell'utilità della soluzione di cui ha parlato Sisto. In base all'art. 4, comma 2, lett. a) della legge n. 28/2000 (quella sulla par condicio), tra la convocazione dei comizi e la presentazione delle candidature gli spazi tra le forze politiche sono divisi tra i "soggetti politici presenti nelle assemblee da rinnovare, nonché tra quelli in esse non rappresentati purché presenti nel Parlamento europeo o in uno dei due rami del Parlamento". Se, come si è visto, il deputato forzista ha chiesto di dare pari spazio ai candidati delle forze presenti in consiglio o in Parlamento (e che incidentalmente sono di solito anche esenti dalla raccolta firme), questa parità è di fatto già prevista per quelle forze politiche e potrebbe utilmente essere completata - senza bisogno di una legge - con l'indicazione del candidato o della candidata nel tempo più breve possibile, così da concentrare su di lui/lei gli spazi a disposizione della forza politica in procinto di presentare una lista.
L'esame del disegno di legge di conversione proseguirà nel pomeriggio di oggi, nell'attesa di scoprire se ulteriori contatti in sede di "comitato dei nove" avranno portato qualche progresso rilevante in materia di campagna elettorale e presentazione delle candidature. Un anticipo dei tempi potrebbe scoraggiare la presentazione di liste, ma eventuali ulteriori tagli alle firme richieste (anche se su quegli emendamenti il voto c'è già stato) potrebbe risultare allettante per qualcuno e far comparire un simbolo sulla scheda con pochissime sottoscrizioni. In fondo è questione di numeri, di date e, ovviamente, di interessi contrapposti.
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