Il legame tra calcio e politici (conclamati o aspiranti tali), lo si è visto nei giorni scorsi parlando del libro La Repubblica nel pallone, è stato consistente ma di solito non molto felice, per una ragione o per l'altra. Eppure nel 2006 il pallone - in senso letterale - avrebbe potuto seriamente finire sulle schede elettorali, nazionali o almeno romane. Non si poteva pensare nulla di diverso guardando il simbolo di Zarlenga Omnia, tra i contrassegni depositati al Ministero dell'interno in vista delle elezioni politiche del 9 e 10 aprile di quell'anno.
Il 24 febbraio, primo giorno riservato alla presentazione dei contrassegni, nelle bacheche del Viminale non poteva non attirare l'attenzione dei presenti anche un curioso emblema a metà tra il globo e il planisfero - che probabilmente non si vedeva dai tempi della Federazione laburista di Valdo Spini e del Movimento Diritti civili di Franco Corbelli - in cui colpiva tanto l'evidenza del cognome Zarlenga (un po' per l'accostamento cromatico mattone-su-verde-e-blu non tra i più gradevoli, ma certo appariscente, un po' per la forma biconcava del testo, di quelle che un tempo si facevano con le Wordart di Publisher), quanto per la presenza di cinque tradizionali palloni da calcio - quelli con gli esagoni bianchi e i pentagoni neri - collocati uno in Europa, uno in Africa, uno in Asia e uno per ciascuna delle Americhe (l'Oceania, semplicemente, non entrava nel simbolo).
Proprio questo accorgimento grafico poteva far pensare con una certa facilità che il simbolo di Zarlenga Omnia potesse essere utilizzato soprattutto per la circoscrizione estero, magari facendo leva sul potere unificante del calcio per gli italiani che vivevano oltre i confini nazionali. Questo, tuttavia, rischiava di far perdere di vista un dettaglio importante: il primo interesse di Mario Zarlenga riguardava proprio l'Italia e, soprattutto, la capitale.
Già, perché Zarlenga, ingegnere, imprenditore del settore delle costruzioni, era presidente di una polisportiva del quartiere Portuense e anche della locale squadra di calcio, chiamata appunto Zarlenga Portuense. Il 10 febbraio 2006 aveva rilasciato un comunicato legato al suo simbolo, in base al quale Zarlenga Omnia era "un altro modo di vivere il calcio". La sua ideale campagna elettorale era iniziata con un appello "alle migliaia di squadre dilettantistiche, alle centinaia di migliaia fra atleti, dirigenti, genitori e famiglie che respirano il calcio vero: quello dei campi di terra rossa, della sveglia presto la domenica mattina e del tifo genuino, lontano da business e politica ma fatto di affetto e sfottò. Il tifoso va salvaguardato e non stressato".
Quell'appello-comunicato, pur se con un po' di fatica, si può ancora trovare in rete e si può scoprire che il programma del gruppo politico si basava soprattutto sul pallone dei "dilettanti": per Zarlenga i presidenti e i consiglieri dei comitati provinciali e regionali, assieme ai presidenti, dirigenti e collaboratori delle società dilettantistiche, erano "il motore del calcio italiano, di cui quello patinato non è altro che un'inutile sovrastruttura": per cui toccava a loro far valere "i diritti del dilettantismo", senza accontentarsi delle briciole lasciate dai professionisti. Secondo il capo politico di Zarlenga Omnia c'erano tre priorità: "1) Autonomia del calcio dilettante, con il riconoscimento dei dirigenti come operatori sociali e delle società come associazioni di base; 2) Il diritto ai giovani oltre diciotto anni, che giocano e percepiscono un rimborso, al riconoscimento di un contributo da parte dello stato, evitando così sperpero ed evasione e dando lavoro riconosciuto; 3) Il gioco del calcio come collante per superare i problemi sociali, non solo da noi ma anche dove a calcio non si può giocare, poiché mancano i beni di prima necessità, creando quindi una rete di solidarietà che non sia la vergognosa passerella degli artisti nelle partite del cuore".
Il 24 febbraio, primo giorno riservato alla presentazione dei contrassegni, nelle bacheche del Viminale non poteva non attirare l'attenzione dei presenti anche un curioso emblema a metà tra il globo e il planisfero - che probabilmente non si vedeva dai tempi della Federazione laburista di Valdo Spini e del Movimento Diritti civili di Franco Corbelli - in cui colpiva tanto l'evidenza del cognome Zarlenga (un po' per l'accostamento cromatico mattone-su-verde-e-blu non tra i più gradevoli, ma certo appariscente, un po' per la forma biconcava del testo, di quelle che un tempo si facevano con le Wordart di Publisher), quanto per la presenza di cinque tradizionali palloni da calcio - quelli con gli esagoni bianchi e i pentagoni neri - collocati uno in Europa, uno in Africa, uno in Asia e uno per ciascuna delle Americhe (l'Oceania, semplicemente, non entrava nel simbolo).
Proprio questo accorgimento grafico poteva far pensare con una certa facilità che il simbolo di Zarlenga Omnia potesse essere utilizzato soprattutto per la circoscrizione estero, magari facendo leva sul potere unificante del calcio per gli italiani che vivevano oltre i confini nazionali. Questo, tuttavia, rischiava di far perdere di vista un dettaglio importante: il primo interesse di Mario Zarlenga riguardava proprio l'Italia e, soprattutto, la capitale.
Già, perché Zarlenga, ingegnere, imprenditore del settore delle costruzioni, era presidente di una polisportiva del quartiere Portuense e anche della locale squadra di calcio, chiamata appunto Zarlenga Portuense. Il 10 febbraio 2006 aveva rilasciato un comunicato legato al suo simbolo, in base al quale Zarlenga Omnia era "un altro modo di vivere il calcio". La sua ideale campagna elettorale era iniziata con un appello "alle migliaia di squadre dilettantistiche, alle centinaia di migliaia fra atleti, dirigenti, genitori e famiglie che respirano il calcio vero: quello dei campi di terra rossa, della sveglia presto la domenica mattina e del tifo genuino, lontano da business e politica ma fatto di affetto e sfottò. Il tifoso va salvaguardato e non stressato".
Quell'appello-comunicato, pur se con un po' di fatica, si può ancora trovare in rete e si può scoprire che il programma del gruppo politico si basava soprattutto sul pallone dei "dilettanti": per Zarlenga i presidenti e i consiglieri dei comitati provinciali e regionali, assieme ai presidenti, dirigenti e collaboratori delle società dilettantistiche, erano "il motore del calcio italiano, di cui quello patinato non è altro che un'inutile sovrastruttura": per cui toccava a loro far valere "i diritti del dilettantismo", senza accontentarsi delle briciole lasciate dai professionisti. Secondo il capo politico di Zarlenga Omnia c'erano tre priorità: "1) Autonomia del calcio dilettante, con il riconoscimento dei dirigenti come operatori sociali e delle società come associazioni di base; 2) Il diritto ai giovani oltre diciotto anni, che giocano e percepiscono un rimborso, al riconoscimento di un contributo da parte dello stato, evitando così sperpero ed evasione e dando lavoro riconosciuto; 3) Il gioco del calcio come collante per superare i problemi sociali, non solo da noi ma anche dove a calcio non si può giocare, poiché mancano i beni di prima necessità, creando quindi una rete di solidarietà che non sia la vergognosa passerella degli artisti nelle partite del cuore".
Il comunicato si chiudeva con uno slogan che somigliava piuttosto a una professione di fede: "Il calcio è uno stile di vita, un collante sociale, una 'religione'. Ha una sua etica e una sua morale ed è altro rispetto a quello che ogni giorno vive sui media". Un credo che Zarlenga avrebbe voluto propagare soprattutto a Roma perché c'era anche la sua candidatura a sindaco della Capitale, accanto a quelle presentate per il turno che vide affrontarsi soprattutto Walter Veltroni (in cerca di una conferma, puntualmente ritrovata) e Gianni Alemanno. L'avventura del difensore del calcio dilettantistico durò poco, perché l'ufficio elettorale escluse la lista per carenza di firme; Zarlenga aveva fatto ricorso al Tar del Lazio, ma non era arrivata alcuna decisione perché poi l'ingegnere aveva rinunciato, chiedendo ai suoi candidati - come scrisse la Repubblica all'epoca - di sostenere Veltroni.
Il simbolo, a dire, il vero non finì nemmeno sulle schede elettorali delle elezioni politiche (probabilmente perché raccogliere le firme sarebbe stato troppo oneroso) e lo stesso accadde nel 2008, dopo che il simbolo finì comunque nelle bacheche del Viminale. Chissà come sarebbe andata, alla prima tribuna elettorale, da trasformare in vetrina di una sorta di rinnovato "calcio totale" (così sembrava a guardare il simbolo). Dalla sua poltroncina, Zarlenga avrebbe potuto sfoggiare un nuovo slogan che sarebbe stato perfetto per lui: "Siamo dei dilettanti e ne siamo fieri".
Il simbolo, a dire, il vero non finì nemmeno sulle schede elettorali delle elezioni politiche (probabilmente perché raccogliere le firme sarebbe stato troppo oneroso) e lo stesso accadde nel 2008, dopo che il simbolo finì comunque nelle bacheche del Viminale. Chissà come sarebbe andata, alla prima tribuna elettorale, da trasformare in vetrina di una sorta di rinnovato "calcio totale" (così sembrava a guardare il simbolo). Dalla sua poltroncina, Zarlenga avrebbe potuto sfoggiare un nuovo slogan che sarebbe stato perfetto per lui: "Siamo dei dilettanti e ne siamo fieri".
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