lunedì 15 giugno 2020

L'Italia turrita, simbolo della Repubblica nell'Italia immaginata

Il 2 e il 3 giugno 1946, quando poco meno di 25 milioni di italiani e italiane (su 28 milioni di aventi diritto) si recarono alle urne per il primo voto di rilievo nazionale dopo la fine del fascismo e della seconda guerra mondiale, ricevettero due schede a testa, da votare, richiudere umettando il lembo "ingommato" e far porre nelle rispettive urne. Su quella per l'elezione dell'Assemblea costituente trovarono posto vari simboli, tra nazionali e soltanto locali; su quella per il referendum sulla forma istituzionale dello Stato i contrassegni erano soltanto due e, tra l'altro, il loro contenuto era stato prestabilito dal governo, ma proprio su quelli si appuntò la maggior attenzione nelle settimane precedenti il voto e durante il lungo scrutinio.
Se la scelta dell'emblema per la monarchia era stata piuttosto ovvia, più attenzione merita il contrassegno scelto per identificare la repubblica, vale a dire l'Italia turrita tra due fronde. Se n'è occupata assai di recente Cristina Baldassini, ricercatrice di Storia delle dottrine politiche all'Università di Perugia, in un saggio incluso nella collettanea L'italia immaginata. Iconografia di una nazione, curata da Giovanni Belardelli (ordinario della stessa materia nel medesimo ateneo) e pubblicata da Marsilio poche settimane fa. Il volume si concentra nelle varie rappresentazioni femminili dell'Italia - un topos diffuso in varie realtà locali e nazionali e che ha radici ancora più risalenti rispetto all'antica Grecia, ma che si riafferma soprattutto a partire dall'età moderna e ancora di più dall'Ottocento - nelle varie fasi della sua storia e si può notare che "solo nel caso dell'Italia l'iconografia della donna turrita è stata così pervasiva, fino ad affermarsi [...] quale caratterizzazione peculiare del paese (continuando peraltro a simboleggiare anche questa o quella città)". Per Belardelli la proliferazione dei centri urbani fortificati (prima in epoca romana, poi nell'età dei comuni) caratterizzò gran parte del centro-nord dell'Italia, ma nell'Italia sabauda centralista non c'era posto per il "policentrismo urbano (e urbano-regionale) che era stato nei secoli una delle peculiarità della Penisola". quell'immagine in qualche modo si prendeva la sua rivincita "sul piano simbolico, diventando l'attributo principale dell’allegoria della nazione".
Il capitolo scritto da Baldassini - intitolato Le diverse Italie della Repubblica - parte dalle prime immagini dell'Italia democratica (dopo la Liberazione) che continuavano a rappresentare il Paese - e a volte le singole città - come una donna, magari con qualche sofferenza ancora su di sé per i lutti della guerra, ma finalmente in condizione di poter rigermogliare e rifiorire, o comunque di essere di sostegno ai suoi cittadini (compresi i reduci) per un nuovo inizio. Erano di questo tenore le prime immagini "di Stato" sui francobolli e le illustrazioni delle testate più diffuse all'epoca (a partire dalla Domenica degli Italiani, che più in là sarebbe tornata la Domenica del Corriere): si trattava - nota l'autrice - di una rappresentazione "dell’Italia completamente depoliticizzata che, evocando sentimenti di speranza, dolore e umana pietà, poteva fornire ai lettori un facile elemento di identificazione, al di là delle diverse esperienze e preferenze politiche".
Non fu così, invece, in vista e in occasione del referendum cui si affidò la scelta tra monarchia e repubblica: fu nuovamente impiegata l'Italia turrita, come in passato, ma questa volta "la nota figura allegorica cominciò a essere utilizzata per fini politici e di propaganda elettorale, perdendo così quella connotazione 'neutra' e non di parte che le era caratteristica". Si trattò di una significativa trasformazione, come messo correttamente in luce da Baldassini, che ha cercato di ricostruire in dettaglio il percorso che ha portato alla scelta di quel contrassegno: lo ha fatto attingendo innanzitutto ai verbali delle riunioni del Consiglio dei Ministri (pubblicati nel 1996), nonché ad altre opere (come i diari di Pietro Nenni e i saggi di Nicoletta Bazzano e Aldo Giovanni Ricci).
La scelta dei contrassegni che sulla scheda per il referendum avrebbero rappresentato le due forme istituzionali sottoposte ad elettori ed elettrici impegnò il governo soprattutto nella seconda metà del mese di marzo 1946, specie dopo l'emanazione del decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98 (che aveva modificato il d.l.lgt. n. 151/1944, vera "Costituzione provvisoria" nel periodo di transizione costituzionale): all'art. 8 si prevedeva che "con decreto del Presidente del Consiglio del Ministri, sentito il Consiglio dei Ministri" si sarebbero emanate le norme sullo svolgimento del referendum, con la possibilità di intervenire, tra l'altro, sul modello di scheda di stato previsto per l'elezione dell'Assemblea costituente; si precisava pure che "per la risposta al referendum dovranno essere indicati due distinti contrassegni". In effetti, di questi contrassegni non si era ancora detto granché, anche se sul Corriere d'informazione del 17 marzo si annunciava che il Ministero per la Costituente avrebbe scelto."simboli semplici e di immediata accessione per l'elettore".  
Le prime bozze della scheda per il referendum - che sarebbe stata stampata dal Poligrafico dello Stato - circolarono dal 16 aprile, alla riunione del Consiglio dei Ministri: il giorno dopo il Corriere d'informazione del 17 aprile parlò di un "rettangolo di carta color paglierino, a forma di modulo telegrafico, suddiviso in sei parti per indicare le linee da seguire nel ripiegare e chiudere la scheda". Quel modello di scheda fu pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del Regno d'Italia il 3 maggio, come allegato al decreto legislativo luogotenenziale 23 aprile 1946, n. 219 (con cui si erano dettate le norme per svolgere il referendum, istituzionale e proclamarne i risultati): è facile vedere, tuttavia, che lo spazio destinato ai contrassegni era vuoto, nonostante il contenuto degli emblemi fosse già stato fissato (come dimostra la didascalia riportata al di sotto del modello di scheda). Non era improbabile, allora, che almeno al 23 aprile i simboli non fossero ancora stati fisicamente realizzati. 
Ma come si arrivò, dunque, alla loro scelta? Al di là di alcune proposte iniziali (compresa quella della testa di Garibaldi, avanzata - insieme al volto del re per la monarchia - da Palmiro Togliatti il 27 febbraio, come riportato di nuovo dal Corriere d'informazione), la discussione sui simboli di monarchia e repubblica entrò nel vivo alla fine di marzo. Ricorda però Baldassini che erano già naufragate le proposte di adottare la donna con il berretto frigio (per la contrarietà di cattolici e moderati repubblicani all'uso di un antico segno repubblicano laico e rivoluzionario, simile alla Marianne francese; eppure una "civetta" sul Corriere d'informazione del 13 marzo 1946 aveva dato per decisi nella seduta del governo del giorno prima la corona reale per la monarchia e "il berretto frigio" per la repubblica) e delle foglie di edera (abbinate alla stella d'Italia), che nel 1834 Giuseppe Mazzini aveva voluto come simbolo della Giovine Europa. Dopo questi scarti, il 28 marzo 1946 arrivò in Consiglio la proposta di Alcide De Gasperi di adottare per la repubblica la sola stella d'Italia oppure i tralci di quercia e di alloro. "Alla fine si decise per questi ultimi, posti 'attorno a una testa turrita di donna' (così venne scritto nel testo della relativa delibera)". 
In effetti quell'espressione figura all'articolo 1 del citato d.lgs.lgt. n. 219/1946, dunque si tratta della definizione ufficiale di quella grafica. Per l'autrice si parlò di "testa turrita di donna" per "rendere meno esplicita l'appropriazione di un simbolo tanto attrattivo e antico, usato per raffigurare l'Italia unita"; ciò nonostante, quell'immagine era e sarebbe rimasta per chiunque "l'Italia turrita" (così del resto fu indicata nel verbale del Consiglio dei Ministri del 28 marzo 1946 e così la indicò Nenni nei suoi diari, oltre che vari quotidiani), anche se in quel caso era stata "utilizzata per contrapporre una parte della nazione all'altra". La questione dell'identificazione di una sola parte in un emblema che prima univa tutto il paese (e che per giunta portava una sorta di corona, sia pure di torri) non sfuggì al ministro per i lavori pubblici Leone Cattani (liberale e monarchico), che nel Consiglio dei Ministri del 29 marzo - lamentandosi anche per le anticipazioni fornite dalla stampa, che già legavano l'Italia turrita alla repubblica - lamentò un "equivoco politico" e chiese di modificare entrambi i simboli. 
Così in effetti fu - ma si concorda con Baldassini quando nota con dispiacere che della discussione sul ritocco degli emblemi purtroppo non c'è traccia in dettaglio nel verbale - e un paio di modifiche furono accolte: da una parte il contrassegno della monarchia fu integrato, aggiungendo sotto la corona reale lo scudo sabaudo (ma Nenni si era messo di traverso, perché lo scudo dei Savoia ricordava lo scudo crociato della Democrazia cristiana); dall'altra si cercò - come scrisse Nenni, ripreso da Baldassini - di "accomodare i cocci della polemica" legata alla rappresentazione dell'intera nazione ponendo entrambi i contrassegni, su proposta di De Gasperi, sopra il contorno dell'Italia. Si arrivò dunque all'accordo definitivo, trasfuso nel citato art. 1 del d.lgs.lgt. n. 219/1946: "Le schede di votazione per il referendum sulla forma istituzionale dello Stato […] sono di tipo unico e di identico colore per tutti i collegi elettorali; sono fornite a cura del Ministero dell'Interno […]. Esse riproducono due rami di quercia e di alloro attorno a una testa turrita di donna come contrassegno della Repubblica e una corona sovrapposta allo stemma di Savoia come contrassegno della Monarchia. Nello sfondo di entrambi i simboli comparirà il profilo geografico dell'Italia".
Alla fine la repubblica vinse, al netto di polemiche sul computo dei voti (espressi o validi), sui brogli e sulla scelta di De Gasperi di assumere il ruolo di capo transitorio dello Stato. Anche se prevalse nelle urne, a qualcuno il contrassegno della repubblica non era proprio piaciuto, almeno sul piano estetico. Qui ci si permette di riportare qualche passo dell'articolo che sulla prima pagina del Corriere della Sera del 20 giugno 1946 Filippo Sacchi, direttore della Lettura ma in procinto di lasciare il quotidiano di via Solferino. Egli puntò il dito contro "quel bel saggio di gusto repubblicano ministeriale che fu il simbolo del referendum", non usando parole proprio gentili: "Quella faccia volgare e malmostosa, disegnata nello stile di un album per lavori di pirografia!". In effetti non è noto l'autore di quel disegno dell'Italia turrita (e nemmeno del profilo geografico del Paese, che peraltro non sembra sempre identico, a partire dalle isole del Quarnaro che a seconda delle riproduzioni della scheda andavano e venivano), ma Sacchi metteva in guardia i lettori perché "la stessa scellerata mano lavora ancora nell'ombra": era infatti convinto che fosse da riferire allo stesso autore il "progetto di stemma, pubblicato da un giornale di Roma, con due banalissimi rami intrecciati racchiudenti le parole 'Repubblica Italiana' scritte in un carattere bastoncino schiacciato, di gusto calligrafico pietoso".  
Al di là del giudizio estetico, Cristina Baldassini si domanda se "l'utilizzo di un'allegoria tanto popolare quale quella dell'Italia turrita abbia sbilanciato la scheda a favore della Repubblica (nonché dei partiti che, come il Pci, l'adoperarono in quell'occasione in qualche manifesto elettorale)"; non le pare affatto un caso, comunque, che come emblema della Repubblica italiana non sia stata scelta l'Italia turrita ma la stella, peraltro all'esito di un percorso assai tormentato e che si concluse con l'approvazione dello stemma - disegnato da Paolo Antonio Paschetto - "senza particolare entusiasmo, più per l’urgenza di trovarne uno che per convinzione" dall'Assemblea costituente. Secondo l'autrice, l'Italia turrita avrebbe potuto trovare posto nell'immaginario collettivo degli italiani, ma per lo stemma o comunque per la comunicazione istituzionale "non venne riproposta, forse proprio per non avallare l’idea che il nuovo Stato repubblicano accogliesse solo i vincitori del 2 giugno 1946, alimentando per questa via le divisioni" e, in ogni caso come immagine "non recuperò il suo carattere neutro: negli anni immediatamente successivi la Democrazia cristiana e soprattutto i settori della destra moderata e monarchica se ne appropriarono ampiamente, raffigurandola nelle vesti dell’unica e vera Italia di cui tali forze si ritenevano rappresentanti e perciò in dovere di salvarla dalla minaccia comunista". Ciò è particolarmente evidente in alcune delle immagini (che il volume L'Italia immaginata riporta) utilizzate sui manifesti della campagna elettorale del 1948 o impiegate da Giovannino Guareschi "per criticare e ridicolizzare l'Italia repubblicana", contrapponendo "una idealizzata Italia del passato a una deprecatissima Italia del presente" (Baldassini analizza piuttosto in dettaglio le rappresentazioni guareschiane e la loro evoluzione nel corso del tempo). Addirittura, nella campagna elettorale del 1953, l'Italia turrita apparve "ormai appannaggio quasi esclusivo della destra moderata (e forse ben più che della Democrazia cristiana)", che anzi se la vide utilizzata contro (in qualche occasione persino dall'Unità nella battaglia contro la "legge truffa"); fece eccezione, in quel periodo, il ritorno all'Italia di Trieste, circostanza in cui "l'allegoria della nazione, partitizzata e trasfigurata dalla propaganda elettorale, tornò a essere semplicemente italiana senza attributi di parte". 
Nelle celebrazioni del primo centenario dell'unità d'Italia, tra le tante occasioni previste, la donna turrita ebbe assai poco spazio, "a parte una sua scontata comparsa nella moneta da 500 lire in argento coniata per l’occasione": la stessa immagine femminile nella nazione perse centralità, marcando a suo modo il voltare pagina dell'Italia "anche rispetto a certi simboli del passato" e anche in seguito, al di là di monete, francobolli, qualche copertina illustrata, del monumento alla lira di Rieti e delle raffigurazioni su carte d'identità e passaporti, l'Italia turrita - chiosa Baldassini - "non avrebbe più veicolato messaggi e contenuti davvero importanti per la nazione, tali da scaldare i cuori degli italiani".
L'intero volume L'Italia immaginata accompagna il lettore - anche non particolarmente esperto - nella rappresentazione iconografica di un paese che, per lungo tempo, si è riconosciuto proprio nell'Italia turrita. A questo proposito, oltre all'introduzione di Giovanni Belardelli, rilevano certamente i primi contributi: quello di Francesco Marcattili per le origini della figura femminile con corona merlata o turrita, dall'Oriente a Roma; quello di Nicoletta Bazzano sulla resistenza sui generis dell'Italia turrita tra medioevo e dominazione spagnola; quello di Cristina Galassi, che coglie il momento della "codificazione" dell'immagine della donna turrita attraverso l'Iconologia di Cesare Ripa. L'epoca in cui si avvia la costruzione dell'identità nazionale - sempre sotto il segno dell'Italia turrita, anche se utilizzata in vario modo da diverse fazioni - tra Settecento e periodo napoleonico è affidata a Erminia Irace, mentre Nicoletta Stradaioli si occupa della nuova sensibilità romantica che ha interessato l'Italia nel Risorgimento e che ha chiamato in causa anche l'immagine della donna turrita; seguita l'analisi delle rappresentazioni, in rapporto ai "padri della patria" (in particolare Garibaldi), Andrea Possieri, In quello stesso periodo si consolida l'allegoria francese di Marianne, sviluppata nel saggio di Fausto Proietti
Parla di una tendenza alla femminilizzazione della società italiana nella Belle époque Claudia Mantovani, la quale mette in luce che anche nell'età giolittiana l'Italia turrita c'è, ma "nella sua nuova versione ufficiale, corredata di stemma sabaudo, accompagnata dal tricolore e spesso sormontata da una stella"; l'immagine torna prepotente invece nell'iconografia della prima guerra mondiale, in varie forme e ruoli, come emerge dal testo di Alessandro Campi, mentre è Loreto Di Nucci a dare conto dell'Italia "romana e fascista" attraverso le sue rappresentazioni. L'ultima parte del volume - dopo il saggio di Cristina Baldassini - è dedicata all'immagine dell'Italia nella cultura e nell'intrattenimento di massa (tra le raffigurazioni dei vignettisti, la promozione delle eccellenze italiane e la versione aggiornata e rivista di Miss Italia, che sconfina anche in un videoclip di Edoardo Bennato, Ok Italia) nell'analisi di Eugenio Capozzi, nonché all'approfondimento sull'Italia femminile nelle caricature di artisti come Giorgio Forattini, Emilio Giannelli e Vauro Senesi, curato da Marco Damiani. Il volume è corredato da un inserto iconografico di 48 pagine che riporta alcune delle immagini più significative - necessariamente ridotte, tra le tante che si potrebbero mostrare - per rendere il cammino più completo e meno astratto.
Proprio le pagine dedicate a quel contrassegno votato da 12.718.641 tra italiani e italiane - contrassegno particolare, insieme a quello della monarchia: entrambi furono decisi direttamente dal governo e non dalle singole forze politiche, furono pensati per un referendum, cosa mai più accaduta dopo, e l'elettore non avrebbe dovuto segnarli, dovendo la croce essere apposta solo nel quadrato a fianco del simbolo prescelto - hanno probabilmente rappresentato un punto di svolta nella storia dell'Italia turrita e, più in generale, dell'intera Italia immaginata. Che non ha smesso di esistere: ha solo cambiato forma, anche lontana dalle schede elettorali e dai manifesti politici.

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