domenica 30 agosto 2015

Il nastro infinito degli Umanisti

Lo si è visto raramente sulle schede, forse più in elezioni locali che di rilievo nazionale, eppure almeno una volta era stato oggetto anch'esso - senza averne colpa - delle bordate dei partiti maggiori. Si lamentava così Gianfranco Fini l'11 aprile 2000, in piena campagna elettorale per le regionali: "Forza Italia ha solo il 16% degli spazi, An il 7%; [...] la Lista Bonino, assieme a un partito inesistente come quello Umanista, sta ottenendo un quarto degli spazi". 
Il vero oggetto della critica era la nuova legge sulla par condicio, che ripartiva gli spazi di propaganda televisiva in campagna elettorale "tra le coalizioni e tra le liste in competizione che abbiano presentato candidature in [...] circoscrizioni che interessino almeno un quarto degli elettori chiamati alla consultazione". Quell'anno il Partito umanista, guidato allora dal suo leader italiano storico, Giorgio Carlo Schultze, riuscì a piazzare proprie liste - fuori dai poli - in cinque regioni tra le più popolose e, superando la soglia richiesta, vide spalancarsi le porte delle televisioni locali e nazionali. Il risultato fu quello che fu, sempre inferiore all'1%, a dispetto delle molte apparizioni televisive che avevano indispettito i pezzi da novanta delle coalizioni e dei partiti storici, sentitisi defraudati di spazi che sarebbero spettati loro. E se nel 2000 obiettivamente le percentuali erano state più alte del solito, in seguito i numeri sono andati peggiorando (le poche volte in cui le liste sono state presentate).
Dopo l'episodio delle regionali, in effetti, si è sentito parlare molto meno di quel partito che - nato nel 1984 e ispiratosi alle idee del Nuovo umanesimo di Mario Rodriguez Cobos (Silo), che avevano già dato impulso al Movimento umanista - tuttora esiste e, negli anni, ha cambiato più volte leader (a Schulze sono succeduti, nell'ordine, Marina Larena, Tony Manigrasso, fino all'attuale segretario generale Valerio Colombo), ma non ha mai cambiato il simbolo, da sempre rappresentato come un nastro di Moebius, ritenuto "simbolo della continuità dell’uomo" (e non a caso richiama anche il segno dell'infinito), né il colore arancio (che "si confonde con le altre ideologie ed è composto da più colori"); un'eccezione obbligata la fece giusto alle origini, quando alle politiche del 1987 venne depositato un contrassegno inevitabilmente bianco, visto che la legge non prevedeva la stampa a colori degli emblemi. 
Dal sito del partito si apprende che nel 2010, assieme agli altri Partiti umanisti di tutto il mondo, il Pu è confluito nel Partito umanista internazionale; più che alle battaglie elettorali, tuttavia, il gruppo si è detto interessato alle attività di base, caratterizzate da nonviolenza e auto-organizzazione, che mettano al centro il valore dell'essere umano (lottando perché i diritti contenuti nella Dichiarazione Universale del 1948 siano pienamente realizzati e garantiti) e valorizzino al massimo tanto l'uguaglianza tra persone quanto le differenze personali e culturali degli esseri umani (puntando a una reale parità di diritti e di opportunità). Tra le battaglie più note in campo politico, la promozione di una legge sulla responsabilità politica, che obblighi gli eletti a mantenere le promesse elettorali, pena la perdita della carica. Battaglie che, tuttavia, difficilmente entreranno nelle aule parlamentari, per lo meno sotto l'insegna del nastro di Moebius.

sabato 29 agosto 2015

Paparini, ovvero la passione politica del tempo che fu

E' rimasto davvero uno degli ultimi riti incrollabili della democrazia italiana, anche se non assomiglia affatto al passato. La fila davanti al Viminale per il deposito dei simboli prima delle elezioni politiche ed europee è, quasi da sempre, uno spaccato di varia umanità, un concentrato di istanze, battaglie ideali e materiali, intenzioni benigne e maligne, sincere ambizioni e progetti inevitabilmente chiassosi (che poi magari non sfociano in nessuna lista). Forse la nuova norma sul deposito obbligatorio degli statuti farà calare anche su quel momento un velo di detestabile sobrietà (specie se abbinata alla legge sui partiti politici in discussione alle Camere), ma il rito della fila di certo sopravviverà.
Le elezioni "naturalmente anticipate" di Fantozzi
E se negli ultimi anni è indubbiamente Mirella Cece, demiurga del Sacro Romano Impero Liberale Cattolico, l'emblema irrinunciabile di quel rito, non si può restare indifferenti davanti a una storia ripescata dall'anno di grazia 1983, grazie ai ricordi di chi ha assistito personalmente alla scena. Bisogna tornare alle settimane precedenti quelle elezioni politiche, "naturalmente anticipate" come diceva Paolo Villaggio in Fantozzi subisce ancora, uscito proprio in quell'anno. Tra i simboli che apparvero sullo schermo, tuttavia, non c'era sicuramente quello del Partito patriottico risorgimentale nazionale italiano, dall'ineffabile acronimo Paparini. La grafica del contrassegno aveva qualcosa di eroico e ottocentesco (non a caso, di "risorgimentale" si parlava), con la rappresentazione dell'Italia turrita nelle forme di una donna slanciata, munita di spada e fascia presumibilmente tricolore, per richiamare non meglio precisati ideali di lotta per rifare daccapo un'altra Italia, presumibilmente quella vera.
A portare quel simbolo per il deposito era stato un signore attempatissimo, di cui il tempo ha fatto scolorire il nome: di cognome poteva chiamarsi Sciuto Grimaldi, o qualcosa di simile. Si presentò al primo tavolo libero, tra quelli predisposti per ricevere la documentazione elettorale, e fu invitato dalla commissione ad accomodarsi: tutti i membri avvertirono distintamente la fatica di quell'uomo, cui scricchiolarono persino le ossa mentre si sedeva, e in un attimo furono certi di non avere mai visto niente di simile in passato. Davanti a loro  c'era il presidente di Paparini, arrivato appositamente da Catania dopo un viaggio lunghissimo, anzi, l'abnegazione di quell'uomo aveva raggiunto livelli inimmaginabili: "Ero ricoverato in ospedale - spiegò con un energico filo di voce ai funzionari attoniti - ma ho firmato per poter uscire da là e arrivare in tempo qui a presentare il simbolo. Ho preso il treno, ho viaggiato tutta la notte e sono qui, per la passione politica!".
A quelle parole il presidente di quella commissione, con un tono tra l'ammirato e il meravigliato, non poté fare a meno di rivolgersi con cura e deferenza al signore che gli stava davanti: "Ma presidente, non era necessario che venisse lei di persona per questo adempimento, poteva delegare qualcun altro al deposito...". Tutto poteva immaginare, probabilmente, tranne la risposta che si sentì dare: "Eh certo, ci sarebbe mio nipote, il vicepresidente... ma quello - disse l'uomo, con ovvia cadenza catanese - quello se ne frega! Quello vuol essere solo preso e seduto in Parlamento!".
Dopo qualche malcelato sorriso l'esame dei documenti proseguì, ma si scoprì che il poveretto si era presentato al Viminale con i contrassegni che non erano delle dimensioni giuste (10 centimetri di diametro per il manifesto e - allora - 2 per la scheda): quando al tavolo del ministero glielo fecero notare, lui quasi si sentì male, visto che prima di partire gli avevano assicurato che tutto era a posto e, per quelle riproduzioni, aveva anche tirato fuori qualche soldo. Fu un gentilissimo funzionario ad accompagnarlo personalmente presso la tipografia ministeriale, perché gli addetti gli potessero fornire in poco tempo i simboli delle dimensioni giuste e la pratica di ammissione potesse concludersi regolarmente.
Lo stesso funzionario, una volta terminati gli adempimenti di deposito, si preoccupò di accompagnare, quasi di scortare il presidente di Paparini alla fermata più vicina del 64 in via Nazionale: lui voleva andare verso San Pietro, proclamando con convinzione "io sono il primo cattolico!" Niente di strano, se si pensa che il motto del partito era "Dio, Patria, Famiglia", non proprio una novità in questo paese. Il ministeriale lo aiutò a salire sull'autobus e poi lo salutò da lontano, prima di tornare in commissione al Viminale; di simboli da ricevere ce n'erano ancora diversi, ma nessuno di loro - ne era certo - avrebbe potuto competere con la determinazione di Paparini...

giovedì 27 agosto 2015

Centrodestra, passo di Salvini verso la Lega d'Italia?

Un simbolo piuttosto improbabile
Al voto, al voto! In effetti non si sa quando (nel 2018, come vorrebbe Renzi, o prima, come vorrebbero quasi tutti gli altri), ma i partiti sanno bene come si voterebbe, cioè con l'Italicum e il suo premio di maggioranza alla lista più votata, invece che alla coalizione. Come si è detto poche settimane fa, solo il Pd e il MoVimento 5 Stelle sembrano già pronti ad affrontare le prossime elezioni politiche: si presenteranno da soli e il loro simbolo (a parte qualche modifica per il Pd, dovesse ospitare altre forze politiche) è già definito. Non è così, come si sa, nel centrodestra, anche se l'idea di un unico soggetto torna a farsi strada, stavolta con le proposte del segretario federale della Lega Nord Matteo Salvini
In un'intervista uscita oggi su Panorama, dopo aver immaginato che "se non si inventano il quarto esecutivo non eletto (e soprassediamo sull'ennesimo strafalcione costituzionale, ndb), l’anno prossimo si vota; il Pd, dopo la caduta del governo, sarà in macerie", Salvini ha espresso una convinzione: "Noi non possiamo fare più errori: serve l’unità del centrodestra". L'idea, non certo nuova, è riproporre su scala nazionale la formula già vista alle regionali in Liguria e in Veneto, sperando così di prendere più voti del M5S e approdare al ballottaggio con l'unico concorrente certo, il Pd. Il problema, a quanto pare, non è il programma di coalizione, che sarebbe condiviso "al 90 per cento" (a partire dai sei punti qualificanti, cioè flat-tax, abolizione degli studi di settore, abrogazione della legge Fornero, lotta all'immigrazione, famiglia tradizionale con apertura alle unioni civili, restando in sospeso solo l'atteggiamento verso l'Europa), e forse nemmeno la leadership, poiché un ticket Salvini-Berlusconi "sarebbe la soluzione migliore" per lo stesso leader leghista; buona parte della stessa base del Carroccio sarebbe favorevole a un accordo con Fi per mandare a casa Renzi. 
Unica reale questione in sospeso, tanto per cambiare, sarebbe la formula dell'alleanza: nessuno ovviamente pensa alla fusione dei partiti, la soluzione dovrebbe essere una lista unica con i candidati dei due partiti (e di quelli che eventualmente dovessero aggregarsi). Nell'intervista di Salvini a Panorama, nomi per il cartello non se ne fanno; qualcuno, come Il Tempo, ha ritirato fuori l'ipotesi "Lega d’Italia", che aveva circolato nei mesi scorsi, sebbene lo stesso segretario del Carroccio a giugno avesse precisato che "non esiste la Lega d’Italia. Non si cambiano le tradizioni, non così rapidamente in ogni caso". L'ipotesi resta piuttosto improbabile, anche (ma non solo) perché Carlo Taormina sarebbe disposto a dare battaglia sul nome che potrebbe confondersi con la sua Lega Italia; schierare un'altra etichetta, nel caso, sarebbe la cosa migliore. A patto di trovarla, ovviamente. 

mercoledì 26 agosto 2015

Nuova Democrazia cristiana, un nuovo progetto?

A volte basta un dettaglio, anche molto piccolo, per creare qualcosa di nuovo, anche se magari se ne accorgono in pochi: così, da qualche settimana, gli appassionati ai dettagli politici potrebbero essersi accorti che è spuntato un nuovo simbolo dell'area Dc. Si tratta, per l'esattezza, di quello della Nuova Democrazia cristiana, gruppo che fa riferimento a Lidio Palumbo e - come segretario organizzativo per le Marche - a Stefano Ravagnani: non si tratta - a quanto si capisce - di un partito, ma di un "laboratorio politico democristiano" nato già nel 2014 che in quella stessa regione ha formato gruppi locali di ispirazione democristiana, arrivando a presentare liste in occasione di alcune elezioni comunali e soprattutto alla recente tornata di elezioni regionali (nelle province di Ancona, Macerata e Fermo).
In effetti, se da una parte il nome del laboratorio non è nuovo - si contano almeno due precedenti "Nuova Democrazia cristiana", la prima fondata da Giulio Giuseppe Negri e poi portata avanti da Salvatore Giraldi, la seconda guidata da Salvatore Platania - il contrassegno ricorda da vicino quello che è stato ammesso alle regionali in due province marchigiane su tre (Macerata e Fermo): in prima battuta gli uffici elettorali provinciali avevano bocciato lo scudo crociato arcuato bianco e rosso su fondo bianco in circonferenza blu, cioè l'emblema classico della Dc che si riconosce nella segreteria di Angelo Sandri, cui in quel momento Palumbo e Ravagnani erano ufficialmente legati; lo stesso simbolo tradizionale, invece, era stato ammesso nella circoscrizione di Ancona e alle elezioni comunali.
A livello regionale il contrassegno ha ottenuto lo 0,83%, ma il dato relativo alle singole province è maggiore: 0,91% ad Ancona (con il logo tradizionale), l'1,57% e l'1,83% rispettivamente a Fermo e Macerata, con l'emblema a fondo blu, con scudo blu e croce bianca. Il tutto, precisano coloro che hanno partecipato alla campagna elettorale, praticamente senza fondi, con una minima copertura dei media, insomma "quasi da sconosciuti": con quelle cifre non poteva arrivare nemmeno un consigliere, ma a pensarci bene il risultato non è stato nemmeno così trascurabile.
Ora che le elezioni sono archiviate da un po', partendo dal contrassegno "di riserva" usato alle regionali è stato creato quello della Nuova Dc: stesso fondo blu, lo scudo a croce bianca allargato e più centrale (al posto della scritta "Spacca presidente") e, in alto, per marcare l'identità, l'inserimento dell'aggettivo "nuova", che starebbe a indicare anche le differenze di metodo seguite dal gruppo. Il laboratorio, in particolare, come si legge in un comunicato a firma Palumbo-Ravagnani diffuso a maggio, vuole perseguire "lo svecchiamento e l’innovazione rispetto al passato, e cioè rispetto ad altre formazioni politiche democristiane che in precedenza , in questi venti anni, avevano saputo presentarsi soltanto alle elezioni di qualche Comune ma non si era mai affacciata in uno scenario più ampio come quello offerto oggi delle elezioni Regionali delle Marche.
Se pure in qualche caso liste della Democrazia cristiana si sono viste anche in realtà territoriali piuttosto importanti (ad esempio la provincia di Milano nel 2009 e il comune di Genova nel 2012, benché in quei casi il simbolo fosse quello della Dc-Pizza), il "caso Marche" rappresenta la prima partecipazione autonoma della Dc alle elezioni regionali negli ultimi anni (fatta eccezione, ovviamente, per il caso della Dc di Rotondi del 2005 e per le liste Dc-Adc del 2010). 
Nello stesso comunicato di maggio si prospettava la convocazione "entro settembre" del congresso costitutivo dell'associazione Ndc, con lo scopo di proseguire ed estendere su più ampia scala quanto realizzato nelle Marche. Si tratta dunque di un percorso autonomo rispetto a quello della Dc-Sandri? Stefano Ravagnani non lo dice espressamente: "in linea generale tutti i gruppi DC presenti in Italia credo debbano considerarsi, soprattutto dopo la sentenza di Cassazione a sezioni unite n. 25999/2010, come se fossero varie correnti di un unico partito in fase di riorganizzazione, dal basso, che molto presto troverà unità, anche organizzativa". 
Su un punto, però, Ravagnani rimarca l'attenzione: "Quante liste elettorali di livello sono state presentate in venti anni? Solo quella delle regionali Marche e del comune capoluogo di Fermo, stop; altre liste riguardano comuni di secondo e terzo piano o situazioni particolari, come Reggio Calabria. Ciò deriva dalla mancata considerazione di un principio fondamentale: il diritto sorge dal fatto. Se la Dc vuole esistere, deve anzitutto essere voluta". Come a dire che per esistere giuridicamente, senza che le altre forze politiche o gli uffici elettorali creino problemi, occorre prima presentare le liste a livello nazionale e farsi votare. Vedremo se quella "unità, anche organizzativa" auspicata si tradurrà in realtà nei prossimi mesi. 

domenica 23 agosto 2015

VigolzonExpo: quando il (simil)marchio sfugge al controllo

E' già capitato di dirlo in queste pagine: salvo casi realmente eccezionali, sulle schede elettorali non c'è posto per i marchi. Se si escludono, infatti, i simboli che - a dispetto di un certo orientamento del Viminale - sono stati registrati anche come segni distintivi presso l'UIBM, i loghi noti per ragioni commerciali dovrebbero proprio stare lontani dalla politica, onde evitare che qualcuno possa indebitamente collegare una lista presentata a un prodotto o a un evento che si fregia di un determinato disegno.
La questione è chiara da tempo: nel 1996 erano spariti i loghi dell'Enel, dell'Italgas e della Sip dal simbolo del Partito dei consumatori italiani, lo stesso è accaduto nel 2013 per tutti i contrassegni contenenti la parola "Equitalia". Ha fatto scalpore poi lo scorso anno la vicenda del simbolo Forza Juve Bunga Bunga: il riferimento verbale e cromatico alla squadra bianconera è sparito dopo una pesante diffida della società torinese. Sarà per questo che, dal 2015, nelle Istruzioni per la presentazione e l'ammissione delle candidature, lo stesso Ministero dell'interno precisa che "a pena di ricusazione, previo invito alla sostituzione, deve considerarsi vietato anche l’uso di simboli propri del Comune nonché di denominazioni e/o simboli o marchi di società [...] senza che venga depositata apposita autorizzazione all'uso da parte della stessa società".
Evidentemente l'anno prima dubbi in materia non dovevano essere sorti ai componenti della commissione elettorale che ha giudicato i contrassegni presentati per rinnovare l'amministrazione di Vigolzone, comune piacentino sotto i 5mila abitanti. Sulla scheda gli elettori trovarono tre liste: avrebbe vinto con una maggioranza schiacciante (oltre il 62%) Vigolzone insieme, facendo rieleggere come sindaco Francesco Rolleri (a dispetto di un simbolo veramente anonimo); la seconda piazza sarebbe andata a Werner Argellati con Amare Vigolzone, caratterizzata da una vela quasi realistica, mentre sarebbe comunque riuscita a portare in consiglio la sua candidata sindaca Lucia Anelli l'ultimo dei tre raggruppamenti, VigolzonExpo.
Già, perché fin dal nome la lista non nascondeva un legame, ovviamente solo ideale, con il grande evento espositivo che ha luogo a Milano-Rho: i giornali, anzi, hanno chiaramente detto che la lista guardava all'Expo 2015 "perché possa portare qualcosa di buono anche per Vigolzone". Quanto alla grafica, era tutta un programma. Per cominciare, le due "o" di Vigolzone erano sostituite da dischi blu con otto stelle in cerchio, a voler evidentemente richiamare l'Europa (“perché è il futuro”, si diceva in campagna elettorale) pur senza riprodurre il logo originale; a spiccare, però, era il marchio di Expo, riprodotto per le ultime tre lettere e senza l'indicazione dell'anno 2015 (e, a volerla dire tutta, con un colore sbagliato - verde anziché azzurro - per una delle sbarre della X). 
Non è dato sapere se qualcuno, in commissione, abbia fatto notare l'eccessiva somiglianza al marchio o se l'esame è andato liscio, almeno quella volta. Di fatto però sulle schede (e persino in consiglio) l'Expo c'è arrivata a sua insaputa, sia pure leggermente modificata: che siano state quelle modifiche, oltre alla tradizionale mole di adempimenti che la commissione deve sbrigare, a garantire la sopravvivenza elettorale del simbolo?

venerdì 21 agosto 2015

Sud Europa, dieci anni dopo Funari

Correva l'anno del Signore 2004: l'anno di elezioni europee, sì, ma anche di elezioni amministrative, il turno più corposo. Tutti guardarono al voto a Bologna (quelle di Sergio Cofferati contro Giorgio Guazzaloca, epiche dopo la sconfitta sanguinosa del centrosinistra cinque anni prima) e Firenze, le altre città ebbero le briciole dell'attenzione. 
Ancora peggio, in realtà, andò alle elezioni provinciali, vera cenerentola della copertura informativa di quei giorni: qualcosa riuscì a conquistarsi Milano (che cambiava colore, dalla forzista Ombretta Colli all'allora Ds Filippo Penati), le altre ebbero lo spazio di tre, massimo cinque secondi al telegiornale. Eppure, soltanto due mesetti prima, a Napoli la partita poteva essere ben diversa: già, perché tra i candidati alla guida della provincia partenopea, doveva esserci un romano doc, l'autoproclamatosi giornalaio più famoso d'Italia, in due parole Gianfranco Funari.
Era il 22 aprile e le agenzie avevano battuto la notizia: "Un movimento meridionalista che si 
ispira alla prima idea di federalismo, quella di Bossi e Miglio: sono i principi ispiratori di Magna Graecia Sud Europa, il movimento meridionalista che alle prossime elezioni provinciali a Napoli candiderà alla presidenza il giornalista televisivo Gianfranco Funari". Lui stesso precisò di non essere "un meridionalista improvvisato", di non avere legami con alcun partito ("Sono collegato soltanto al Sud") e annunciò una campagna elettorale "televisiva, per la strada, tra la gente", con la convinzione che "le forze per far splendere il sud ci sono".
Sulla scheda, però, il simbolo Magna Graecia Sud Europa e il nome di Funari non arrivò mai (mentre ci arrivò quello di Adel Smith, allora candidato dalla Lega Sud alla guida della provincia e già noto contestatore di crocifissi). Di notizie se ne trovano poche, per lo meno in rete: c'è chi parla di raggiro da parte di chi doveva raccogliere le firme, secondo altri le sottoscrizioni necessarie erano state rubate (con contorno di minacce di morte al giornalista). In ogni caso, della candidatura Funari - la seconda abortita, dopo a quella a sindaco di Milano nel 1997 - non si parlò più.
Il simbolo, invece, rispuntò a distanza di dieci anni esatti: il cuore a contorno rosso, su fondo blu e la scritta "Sud" su freccia-cartello verde tornò sulla scena politica locale al fianco di Fausto Sacco: doveva essere lui il candidato per la provincia di Avellino nel 2004, mentre ora di Magna Graecia Sud Europa è il segretario. "Il Movimento politico nato alcuni anni fa per tutelare le istanze del mezzogiorno - ha dichiarato l'anno scorso - è pronto a riavviare le proprie attività politiche in vista delle prossime elezioni regionali". Era prevista la partecipazione alle regionali calabresi del 2014 e a quelle campane di quest'anno; anche stavolta, però, le liste non sono state presentate. Il cuore del Sud Europa, però, probabilmente batte ancora. 

martedì 18 agosto 2015

L'AltraItalia, senza spazio e non berlusconiana

Alla fine non solo non sarà un partito, ma quasi sicuramente non si chiamerà nemmeno L'Altra Italia. L'idea di Silvio Berlusconi di rilanciare Forza Italia e tutto il centrodestra attraverso un nuovo soggetto politico nella forma della fondazione probabilmente rimarrà, ma l'uso del nome sarà dannatamente più difficile: una bandierina giuridica su quell'espressione qualcuno ha già tentato di piantarla.
Il 30 luglio, infatti, all'Ufficio italiano brevetti e marchi risulta essere stato depositato come segno distintivo a nome di Stefania Mafalda, bellunese, giornalista  presso il Gazzettino e - questo conta di più - direttrice responsabile di www.laltraitalia.it, ossia "il primo giornale online di buone notizie". Ne ha dato notizia AdnKronos in un lancio di agenzia di Antonio Atte, ripreso per primo dal Sole 24 Ore. La domanda di marchio, ovviamente, è troppo recente per essere stata presa in carico da qualche funzionario, ma appunto si tratta pur sempre di qualcuno che - legalmente, al di là delle indiscrezioni giornalistiche - è arrivato prima a occupare il nome e il marchio usato come testata (e si vuole tutelare anche la sua versione abbreviata, cioè "la vocale 'a' di 'altra' [...] all'interno dell'immagine dell'apostrofo con coda verso destra e non viceversa come nella normalità" "la vocale 'i' maiuscola [che] rappresenta l'Italia").
La registrazione, va detto, è stata chiesta per una quantità spaventosa di beni e servizi, con un'elencazione drammaticamente dettagliata delle classi 35, 38, 42 e 45 (un elenco infinito che va dalla selezione di personale con test psico-attitudinali ai servizi di agenzie matrimoniali), quindi la politica non c'entra direttamente; resta il fatto che, a questo punto, "L'Altra Italia", con o senza spazio, c'è già. E, a dire il vero, c'era anche prima: basta cercare su Google quell'espressione ed escono altre realtà omonime o quasi, come un festival di Ascoli Piceno arrivato alla quarta edizione e un'associazione "Altra Italia" il cui sito esiste dal 2010. La mancanza dell'articolo, qui, riporta quasi alla vicenda dell'Avanti!, che morto a metà degli anni '90 come quotidiano socialista in attesa che qualcuno lo risvegliasse, finché se l'era preso Valter Lavitola trasformandolo in un foglio "liberalsocialista", aggiungendo all'inizio la "elle" e l'apostrofo, rimasto in seguito per distinguere le due testate. 
Qui ovviamente la questione è tutt'altra, ma i dubbi sul fatto che la nuova creatura politica - non partitica - legata a Berlusconi possa davvero chiamarsi "L'Altra Italia" crescono, invece che diminuire.

lunedì 17 agosto 2015

Ricordando Cossiga: i "Quattro Gatti" mai finiti sulle schede

Non è sfuggito quasi a nessuno dei media che contano, com'era prevedibile, che oggi è caduto il quinto anniversario della scomparsa di Francesco Cossiga, l'uomo che dal 1990 più di chiunque altro ha rivoluzionato la politica italiana, o almeno ha fatto di tutto per provarci. 
Dimenticate (se mai vi è rimasta in mente o l'avete vissuta) la prima lunga, lunghissima fase di politica cossighiana, quella in cui - per dirla con le parole di Filippo Ceccarelli, che ne ha tracciato più ritratti di tremenda efficacia - "giovane allievo di Antonio Segni, ondeggiò tra Taviani e Moro prima di manifestarsi provvisorio doroteo di complemento": passò in un rapido e petroso cursus honorum dagli scranni di Montecitorio a una poltrona da sottosegretario, dal Viminale a Palazzo Chigi, dallo scranno più alto di Palazzo Madama fino ad arrivare al Quirinale. E, già che ci siete, toglietevi dalla testa anche il primo lustro da Presidente della Repubblica, relativamente ordinario, come ci si poteva aspettare da un ex docente di diritto costituzionale regionale. 
Ci perdonerà - si spera - l'uomo Cossiga se quello che qui interessa di più è ciò che è accaduto dal 1990 in poi, la sua seconda vita iniziata nei panni dell'esternatore seriale, del Picconatore (non se ne ricordano altri, ma la maiuscola è tutta sua). Soprattutto, però, si può dire che dal 1990 in poi Cossiga si è continuamente messo in scena, o meglio, ha messo in scena un personaggio che portava il suo nome, ma ha assunto mille volti e maschere, a seconda che prevalesse in lui - come disse lui stesso - l'omino bianco o quello nero, la sua parte pessimista e razionale oppure quella fantastica, creativa e, soprattutto, dissacrante. 
Se ne ricordano a decine, di queste recite messe in scena sempre al solo scopo di "onorare la Nazione ed amare la Patria", come scritto nella lettera inviata postuma al Presidente del Senato. Recite in equilibrio gioiosamente instabile tra il folle conscio e lo sciamanico. Quasi che - citando ancora Ceccarelli, stavolta dal Teatrone della politica (Longanesi, 2003), di cui Cossiga è stato un protagonista indiscusso - il futuro Dj K si fosse assegnato "un ruolo di intermediario tra questo mondo e un altro misterioso; tra le forze che regolano la vita degli uomini e i simboli che da sempre ne accendono la fantasia". Una figura, dunque, che era una sorta di incrocio tra il fool dei testi di Shakespeare (che può dire la verità a costo di sembrare scombinato), il mago, anzi il majarzu sardo e l'uomo-medicina, che agisce con i fatti e con le parole ma deve sempre essere interpretato: spesso quando voleva aiutare qualcuno - lo ha raccontato anche il fidato collaboratore Paolo Naccarato - agiva contro la volontà di questi, cercando di portarlo sulle posizioni che più coincidevano con gli interessi del paese (se l'altro non lo capiva, pazienza).

sabato 15 agosto 2015

Quando Forza Piacenza (insieme) non era Forza Italia

Somiglianze galeotte: se a volte le affinità - più o meno legittime - riguardano due simboli presentati nello stesso turno elettorale e fanno litigare i depositanti, figurarsi quante polemiche possono scoppiare quando il richiamo grafico o verbale c'è, ma colpisce un emblema che quella volta non partecipa al voto. 
Si torni con la mente, per dire, al 2012 e ci si teletrasporti a Piacenza, città in cui si votava per rinnovare l'amministrazione comunale, dopo dieci anni sotto il segno di Roberto Reggi. Il centrosinistra praticamente tutto intero avrebbe conquistato nuovamente la città con Paolo Dosi, il Pdl schierava Andrea Paparo, senza però poter contare sulla Lega Nord, che candidava Massimo Polledri; il M5S presentava Mirta Quagliaroli, mentre sulla griglia di partenza c'erano anche Pier Angelo Solenghi (Piacenza Bene comune), Pierpaolo Gallini (Udc) e Pietro Luigi Tansini (Pensionati piacentini).
Se per i drogati di politica, nella coalizione di centrosinistra, uno dei pochi dettagli davvero interessanti poteva essere la presenza di una lista dei Moderati di Giacomo Portas, formazione nata e presente soprattutto in Piemonte, ma che nelle urne piacentine ha superato addirittura il 13% (la lista per l'occasione si chiamava Moderati e piacentini per Dosi), nell'area di quel centrodestra spaccato c'era una chicca davvero imperdibile. Perché il fatto che Massimo Polledri, oltre che dalla Lega, fosse appoggiato da una lista chiamata Forza Piacenza insieme non era piaciuto nemmeno per sbaglio né al vicecoordinatore provinciale del Pdl, Werner Argellati, né al coordinatore nazionale Sandro Bondi, che aveva tuonato in un esposto all'ufficio elettorale contro "un contrassegno riproducente dicitura e/o raffigurazione grafica che riteniamo possa facilmente confondersi con quello notoriamente usato dal movimento politico Forza Italia".
Il fatto è che la lista Forza Piacenza insieme, di cui era portavoce Gianmarco Lupi, era comparsa alla fine di marzo - pochi giorni prima del deposito delle candidature - fin dall'inizio come punto di riunione di "persone rimaste deluse dalle precedenti amministrazioni", ma era certamente di centrodestra e l'idea iniziale era di chiedere a quell'area politica di presentarsi compatta e con una linea comune al voto, senza sfrangiarsi su tre diversi candidati sindaci (Paparo, Polledri e Gallini). Alla fine il disegno unitario non si era compiuto e, tra i tre nomi disponibili, Lupi ha scelto Polledri, mettendosi direttamente in concorrenza con il candidato del Pdl, che tra i suoi simboli - oltre a quello del Pdl - ne aveva un altro tricolore, quello di Piacenza viva (lista di candidati nuovi alle istituzioni e con al suo interno alcuni esponenti di Fli: la figura che emerge nel semicerchio rosso sembra essere uno dei cavalli del Mochi, in particolare quello dedicato ad Alessandro Farnese). 
Non stupisce granché, allora, che i dirigenti del Pdl abbiano lamentato il tentativo di Forza Piacenza insieme di "ingenerare confusione nell'elettorato con la lista Forza Italia, presentata alle elezioni comunali del 2007", anche grazie all'inserimento di "Forza Piacenza" in una banda tricolore "che richiama il simbolo di Forza Italia". La commissione elettorale, tuttavia, aveva ammesso il simbolo e probabilmente non aveva torto. Per iniziare, la legge elettorale per le comunali è più permissiva rispetto a quella delle elezioni di rilievo nazionale (in quel caso l'emblema sarebbe sicuramente stato bocciato): le somiglianze a quel livello generalmente sono punite solo tra simboli che coesisterebbero sulla scheda, non quando quello imitato o simile non è stato presentato. In più, il tricolore piacentino è ben diverso, perché è ribaltato (in alto c'è il rosso e non il verde come nella bandierina di Fi) e dà molto più spazio al bianco. Il vero problema, casomai, era l'intera grafica davvero poco felice, soprattutto la scelta del carattere Tahoma con la banda blu nella parte alta di "Piacenza": i giudizi estetici, tuttavia, esulano fortunatamente dai compiti delle commissioni elettorali.
A dare torto a Bondi e Argellati sul rischio di confusione, in ogni caso, furono gli stessi cittadini piacentini: Paparo andò al ballottaggio con Dosi, Polledri arrivò quarto dopo il M5S, ma soprattutto Forza Piacenza insieme ottenne lo 0,66%, terribilmente meno anche delle liste a sostegno dei candidati sindaci "solitari" (andò peggio solo la terza lista legata a Polledri, che univa Pensionati emiliani e Movimento cristiano, con lo 0,24%). Chi voleva votare Forza Italia, probabilmente, aveva comunque scelto il Pdl o, al più, non aveva votato; difficile che i nostalgici del 1994 abbiano messo per sbaglio una croce su Forza Piacenza, rimasta ovviamente fuori dal nuovo consiglio.

venerdì 14 agosto 2015

Il Paladino d'Italia? Sta a Savignano sul Rubicone

Qualcuno ha registrato partiti nuovi o ha in programma di farlo? Se gli è venuto in mente, è possibile che abbia tentato di mettere le mani avanti chiedendo la registrazione del simbolo come marchio. Per cui, se solo si ha un attimo di tempo, si può avere la tentazione di perdere qualche manciata di secondi interrogando il database dell'Ufficio italiano brevetti e marchi: se però la scoperta va incontro al mistero quasi totale, è solo colpa vostra. 
Cercando i simboli registrati contenenti la parola "partito", infatti, l'ultimo depositato in ordine di tempo è quello del Partito Masetti, dal nome - si presume del depositante, signor Michele Masetti di Savignano sul Rubicone.
La domanda, presentata a marzo, risulta ancora in lavorazione; non sapendo nulla sul soggetto proponente, ci si deve limitare a ciò che salta agli occhi, dunque a un'analisi grafica del contrassegno. Intanto bisogna ammettere che l'immagine denota una certa cura: l'anello tricolore in rilievo è stato fatto con attenzione alle ombre e ai riflessi di luce; lo stesso vale per la bandiera con pieghe a onde, che porta in alto e in basso, in una cornicetta bianca, i due slogan legati all'emblema, "Il Paladino d'Italia" e "Fatti e non più parole". L'attenzione ai riflessi si nota anche nella "placchetta" entrale, in cui oltre al cognome del presentatore del simbolo c'è anche la forma abbreviata del "Paladino d'Italia", che a questo punto assurge a vero nome del partito: non può non colpire quella P a pancia allungata, che pure sa di già visto, rimandando un po' a Palombini (il caffè), un po' alla Pirelli. E in effetti, a ben guardare, tutta la grafica del segno rimanda un po' a uno stemmino o un adesivo applicato sulla carrozzeria di un'automobile o di una moto, come usava qualche anno fa.
Ciò detto, però, resta sempre il problema fondamentale: chi è questo Paladino d'Italia, questo Michele Masetti di cui parla il simbolo? Cercando "Partito Masetti" su Google non esce nulla, cercando "Il Paladino d'Italia" invece sì: c'è un sito registrato, con un minimo di informazioni essenziali su questa forza politica di cui ancora ben pochi sanno qualcosa. Masetti si definisce "un cittadino italiano chiuso nel proprio silenzio", accompagnato da sogni e pensieri, che però ha deciso di mettersi in gioco politicamente per combattere un orizzonte di distruzione, sofferenza e ingiustizie.
L'Italia - Masetti ne è certo - sarebbe un paradiso se la sua gente fosse veramente unita. Comincia da lì il progetto per un nuovo paese e una diversa gestione, che contagi le persone una a una, dando voce alle istanze di "una nuova politica più giusta e più equa per tutti", che almeno diminuisca le ingiustizie imperanti. Perché questo, in fondo, per Masetti è la politica: "eliminare tutte le ingiustizie che possiamo".
Il tutto passa attraverso un programma di pochi punti, chiari e non proprio semplici da realizzare, visto l'andazzo comune: una politica che produca "poche leggi ma giuste", che non arricchisca chi la fa ma aiuti il popolo, che sia aperta a chi dalla sua ha - più che titoli di studio - passione, sensibilità, saggezza e amore per il popolo. Una politica che faccia sempre decidere il popolo (e non pochi addetti), visto che la sovranità è sua; una politica che generi una sanità che tratti tutti gli ammalati con umanità (non pietà) e non faccia mancare a nessuno le cure e gli strumenti per migliorare la propria vita; una politica che assicuri a tutti un lavoro (e con esso la dignità), senza che nessuno ne risulti schiavo.
Certamente parte di questo programma è direttamente influenzato da situazioni vissute in prima persona (incrociando un po' di informazioni, risulta che Michele Masetti è una persona diversamente abile, che ha molto lottato e continua a farlo perché i diritti di tutti siano rispettati): il ruolo del paladino è impegnativo e Masetti ha accettato la sfida, vedremo quanti vorranno farlo con lui.

giovedì 13 agosto 2015

In fondo a sinistra (5): la ricetta dei Carc verso il socialismo

Di tutte le falci e martelli viste sin qui e sopravvissute alla storia politica italiana, probabilmente è quella più irregolare, quasi naïve, visto il suo disegno "artigianale", come se fosse stato tracciato a mano. Ha comunque accumulato una certa storia il simbolo - giallo, su fondo ovviamente rosso - del Partito dei Carc, ove la sigla sta per Comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo, anche se da più parti i suoi aderenti e le sue attività sono guardati con sospetto (al punto che se n'è interessata più volte la magistratura, ma qui non interessa questo capitolo).
I Carc risultano fondato nel 1992 a Viareggio, con Giuseppe Maj come primo segretario; per parlare realmente di partito, tuttavia, si deve attendere il 2009, dopo la "terza Lotta ideologica attiva". Anche se la sede nazionale risulta essere a Milano (segretario risulta essere Pietro Vangeli), il maggior radicamento del Partito Carc si ha in Toscana e in Campania, con presenze anche in Emilia Romagna (essenzialmente a Reggio Emilia) e in Lazio.
Basta leggere l'articolo 1 dello statuto per essere trasportati in un'altra dimensione, in cui la realtà esiste e i suoi problemi pure (aderenti e militanti sono pur sempre uomini in carne e ossa), ma c'è spazio anche per le costruzioni ideologiche e per l'utopia. Dall'inizio il P.Carc è definito come "un Partito di comunisti" (ma su Wikipedia si parla di partito marxista-leninista-maoista): l'obiettivo finale è instaurare il socialismo (quello originale, s'intende), ma il primo passo cui tendere è la costituzione del "Governo di Blocco Popolare", ossia un governo d’emergenza cui concorrano le organizzazioni operaie e popolari e da esse sostenuto, per affrontare la crisi: nel programma, l'assegnazione pianificata a ogni azienda di compiti produttivi utili e adatti alla sua natura, la distribuzione di prodotti "alle famiglie e agli individui, alle aziende e ad usi collettivi secondo piani e criteri chiari" decisi democraticamente, l'assegnazione a ciascuno di un lavoro socialmente utile che garantisca (se ben eseguito) la possibilità di una vita dignitosa; l'eliminazione (e riconversione) di attività e produzioni inutili o dannose per l’uomo o per l’ambiente, la riorganizzazione delle varie relazioni sociali in conformità alla nuova base produttiva e, last but not least, la ricerca di relazioni di solidarietà, collaborazione o scambio con gli altri paesi disposti a stabilirle.
Il programma è nell'alveo del (nuovo) Partito comunista italiano - la cui carovana è riconosciuta come "la maggiore e la migliore concentrazione del movimento comunista che esiste nel nostro paese" - e la sua linea e i metodi che ne sono alla base già nello statuto sono riconosciuti come "fondamentalmente giusti, relativamente giusti" (come dire che l'idea è buona, ma va perfezionata). Certamente c'è molto da lavorare: non basta fare "propaganda per il socialismo e il comunismo" (cosa che pure rientra in pieno nella linea del P.Carc), ma occorre anche "sostenere e valorizzare le lotte spontanee delle masse popolari e promuoverle [...] per sviluppare e rafforzare la sinistra e coinvolgere anche la parte più arretrata delle masse popolari e come terreno per fare scuola di comunismo".
Non più tardi di ieri, nel passaggio tra una festa "della riscossa popolare" all'altra (da Napoli a Marina di Massa), il messaggio affidato a Facebook era molto impegnativo: "Passare dalla difesa all'attacco. Organizzarsi e coordinarsi. Perché non sono i padroni ad essere forti, sono gli operai e le masse popolari che devono fare valere la loro forza!" Anche il socialismo e il comunismo, in fondo, passano per una forte consapevolezza...

mercoledì 12 agosto 2015

Libertas, la colomba crociata figlia della Dc


Dare attenzione alle vicende collegate direttamente o indirettamente allo scudo crociato dà sempre soddisfazione: piaccia o no, quell'emblema sembra una fonte inesauribile di storie e di sigle. Una delle ultime - non certo l'ultima, si intende, è proprio impossibile mettere la parola "fine" in questo ambito - porta il nome di Movimento politico Libertas, che fin dal nome richiama l'antica ispirazione democristiana, senza però utilizzare ufficialmente né il nome né il simbolo storici. Il movimento, nato a settembre del 2014, ha come presidente Antonio Fierro, ex dirigente dell'Iri e già alla guida di un altro movimento dal nome latino e di matrice cristiana, Veritas.
Anche chi segue seriamente la politica e i suoi movimenti, a questo punto, potrebbe essere colto da dubbi. D'accordo, Fierro da presidente del Movimento politico Veritas aveva indicato sé stesso come capo della forza politica alle elezioni del 2013 (anche se poi in nessuna circoscrizione corsero liste con quel simbolo). Poco più di un anno dopo, tuttavia, esattamente al primo mattino del 6 aprile 2014, mentre due giovani donne da almeno un giorno avevano tenuto il posto nella fila davanti al Viminale proprio a nome di Veritas - posso testimoniarlo personalmente, avendo dato io il numero alle signore al posto di Mirella Cece, che mi aveva chiesto di sostituirla per un po' - a prendere la loro posizione era stata la Democrazia cristiana che si riconosceva nella segreteria politica di Angelo Sandri. 
Europee 2014: Fierro al Viminale
A depositare l'emblema dello scudo crociato arcuato su fondo bianco, nella "delegazione" guidata dallo stesso Sandri, a fianco dell'allora presidente del consiglio nazionale Anna Ciammetti c'era proprio Antonio Fierro, visto che il suo movimento Veritas nei mesi precedenti aveva stretto un accordo con la Dc-Sandri: quel giorno, probabilmente, Fierro aveva in animo di presentare anche il suo simbolo, anche se poi deve aver cambiato idea (non a caso, in bacheca, dopo lo scudo "sandriano", nello spazio con il n. 11 rimasto a lungo vuoto è apparso un foglietto con la scritta "non presentato").
Cosa ha portato, nel giro di poco tempo, Fierro da una collaborazione con la Dc-Sandri (nella quale ha rivestito incarichi apicali, compreso quello di vicesegretario nazionale) al varo di una nuova formazione politica? Ce lo spiega lui stesso: "Ricordo che nel 2013 fui chiamato da Sandri che aveva letto un mio articolo, alla fine di quell'anno partecipai anche al congresso di Perugia con cui "riabilitai" Sandri come segretario, ma in seguito compresi che non poteva ricoprire quel ruolo, tant'è che alle regionali di fatto finì per dare sostegno a Fratelli d'Italia. Per quanto riguardava me, io ero un iscritto alla Dc del 1992-1993, come coordinatore del comitato avevo avuto la delega a riportare all'interno delle Camere la Democrazia cristiana e su questo non ho mai cambiato idea".
Se al momento Fierro non milita all'interno di un partito che abbia quel nome storico, c'è un motivo ben preciso: "Ho capito che con la Dc non si può fare assolutamente nulla, dopo gli approfondimenti che sono stato costretto a fare: in pratica, tutti i deputati e senatori che hanno preso i soldi o gli immobili, dopo la fine del partito avevano e hanno tutto l'interesse affinché la Dc non cammini più". Occorreva un sistema per far rivivere la Dc senza la Dc, ma come?
Una possibile soluzione venne riguardando al passato: "Va ricordato che un gruppo nutrito di persone che ai tempi aderivano alla Dc giovanile era iscritto anche alle organizzazioni sportive che la Dc aveva nelle varie città, il cui nome era Libertas - nota Fierro -. Un giorno questi vecchi iscritti si sono riuniti e sono venuti a prendermi, mentre ancora stavo analizzando il "problema" della Dc. Quando ho capito che non c’era modo di arrivare in Parlamento in quelle condizioni, chiamai questa cinquantina di persone e ci rivedemmo: spiegai loro che con nome e simbolo tradizionali non ci si poteva candidare, così abbiamo costituito il Mpl, facendo nascere una realtà cui per decenni nessun altro era riuscito a dar vita". a che è quello che non erano riuscito a fare per decenni". 
Di cosa parla Fierro? "Da quando abbiamo iniziato le nostre attività, a settembre del 2014, abbiamo raccolto iscritti in tutta l’Italia: ci sono regioni in cui potremmo essere tranquillamente il primo partito, come in Campania, Sicilia, Lucania, molti consiglieri e assessori stanno passando con noi. Abbiamo costituito una squadra valida a livello nazionale, ma non abbiamo alcuna intenzione di dare voce a senatori e deputati del passato: chi vuole partecipare può farlo solo come persona per bene".
Il primo simbolo adottato
"Se la Democrazia cristiana dovesse avere un figlio, dovrebbe chiamarsi Movimento politico Libertas", aveva dichiarato ad aprile uno degli aderenti del nuovo soggetto politico a un quasi incredulo Franco Bechis, che ad aprile a Roma si era imbattuto in un banchetto del Mpl e non si capacitava di avere scoperto la nascita dell'ennesimo movimento. "Oggi fare politica è una vocazione - dichiarava in modo risoluto il giovane - se ce l'hai prendi i voti, se non ce l'hai non li prendi". In effetti a Somma Lombardo non è andata benissimo (Massimiliano Bersi, candidato sindaco, ha preso 70 voti, lo 0,95%), ma si è trattato pur sempre dell'esordio. 
In quel caso, tuttavia, il gruppo non ha potuto avvalersi del simbolo che inizialmente era stato ideato, che si basava pur sempre su una rielaborazione dello scudo crociato, sia pure con colori diversi e il tocco di due uccelli stilizzati ad ali spiegate: "In effetti avevamo elaborato un primo simbolo - spiega Antonio Fierro - ma sono andato direttamente al Ministero dell'interno, ho chiesto una sorta di parere preventivo a chi si occupa normalmente dei contrassegni e mi è stato detto che alcuni particolari erano da cambiare, così ci siamo regolati di conseguenza". Ogni accenno diretto allo scudo crociato è sparito, per cui ora l'emblema è così descritto: "Cerchio bordato di blu a fondo azzurro sfumato verso il bianco, contenente al centro uno scudo riportante alla testa convessa di colore blu la scritta 'Movimento Politico Libertas'; al centro dello scudo la colomba bianca e rossa su fondo azzurro sfumato sovrapposta alla fascia arcuata tricolore nazionale; alla punta dello scudo l'acronimo MPL verde, grigio chiaro e rosso". 
Con il nuovo emblema il gruppo intende fare politica attiva ("Sapesse quante pressioni ho per non andare avanti", assicura Fierro) e ha in mente qualcosa di ben preciso per far saltare il banco: "Il movimento Politico Libertas - si legge sul sito del Mpl - sta preparando un attacco concentrico alle istituzioni che non intendono portare il Paese alle elezioni politiche in brevissimo tempo, nonostante le due sentenze della Corte di Cassazione n.8878 del 04/04/2014 [quella che ha riconosciuto la lesione del diritto di voto a causa dell'applicazione del Porcellum, ndb] e della Corte Costituzionale [si tratta della nota sentenza n. 1/2014, con cui la stessa legge elettorale è stata parzialmente dichiarata incostituzionale e su cui si è appoggiata la Cassazione nella pronuncia vista prima]. Il Movimento Politico Libertas scriverà in breve tempo a tutti i Paesi della C.E. perché non riconoscano i rappresentanti politici italiani in quanto non eletti legittimamente. Sarà comunicato alla Comunità Europea che, qualora e in qualsiasi momento dovesse avvenire un cambiamento politico nel Paese, gli atti firmati dai governanti non eletti o eletti illegittimamente non saranno assolutamente riconosciuti per cui nulli. Lo stesso dicasi per gli atti firmati in Italia".
Sarà interessante capire come andrà a finire (e sapere, tra l'altro, come il movimento Libertas legga la sentenza della Consulta nella parte in cui "salva" la legittimità del Parlamento in carica); nel frattempo, la colomba crociata del Mpl continuerà a volare, altezza e meta la decideranno iscritti ed elettori.

lunedì 10 agosto 2015

India, ovvero la carica dei 1800 simboli

Ogni tanto scartabellare nei milioni di fogli dei resoconti parlamentari è un'esperienza interessante. Prendete, per esempio, queste parole, pronunciate al Senato il 9 novembre 2007: "Qui dentro sono presenti dieci Gruppi parlamentari, forse 15 simboli. Sono, quindi, disponibili in tutto il Paese circa 50 milioni di simboli. Chi vuole restringere attraverso un emendamento che costringerebbe gli elettori a non trovare più il proprio simbolo? Nessuno. [...] Ci sono 50 milioni di simboli disponibili; sicuramente non devono essere disponibili i simboli dei Ds, di Alleanza Nazionale o della Democrazia Cristiana perché, se non si è d’accordo con questo, allora si è tutti nell’imbroglio e nella confusione".
A parlare era stato Mauro Cutrufo, allora senatore della Democrazia cristiana per le autonomie, mentre si discuteva della proposta - poi stralciata, tra l'esultanza di chi era fuori dal Parlamento e temeva di essere strozzato in culla - di creare un Registro per la tutela dei simboli di partito: il futuro vicesindaco di Roma, per evitare la confondibilità di alcuni partiti con le forze presenti in Parlamento e "registrate", proponeva l'uso di qualunque altro simbolo, purché non somigliasse a scudi crociati, fiamme tricolori, ulivi, bandierine tricolori, vessilli con falci e martelli, gabbiani, soli ridenti e così via. Per non rischiare bocciature, dunque, l'unica vera alternativa - anche per chi si riconosceva in una certa tradizione politica - era dare spazio alla fantasia.
Viene da chiedersi, allora, come si sarebbe trovato Cutrufo a fare politica in India. Già, perché nell'Unione indiana la scelta del simbolo è un affare drammaticamente serio: il tasso di analfabetismo è talmente alto che senza disegni ben riconoscibili è impossibile che la gente riconosca chi vuole (o "deve") votare; anche per questo, là esiste una Commissione elettorale che si occupa della materia (non solo di quella, naturalmente) e ci sono regole ben precise. Un'associazione che si qualifichi come partito e voglia poter ricevere contributi da privati deve registrarsi presso la commissione. 
Un particolare regime è previsto per i partiti "riconosciuti", nazionali (presenti almeno quattro stati dell'Unione indiana, con almeno cinque anni di attività continuativa) e quelli statali (rappresentati in meno stati, con un carattere maggiormente locale): questi soggetti, che attualmente sono 31 - 6 nazionali, gli altri statali - hanno garantito l'uso esclusivo del loro simbolo nello spazio territoriale relativo al loro riconoscimento (l'intera Unione o i singoli Stati): se anche non dovessero presentare candidati in quei luoghi nessuno potrà adottare quegli emblemi "riservati". Il discorso, ovviamente, si complica con i partiti statali, perché al di fuori degli ambiti territoriali protetti i loro emblemi saranno utilizzabili da altri partiti statali: nel ben noto stato del Kerala, ad esempio, la coppia vanga-pala può essere usata solo dal Partito socialista rivoluzionario e così pure nel Bengala occidentale, ma altrove il contrassegno potrebbe essere usato da altri; così avviene senz'altro per la bicicletta, che in Andhra Pradesh e Telangana è solo del partito Telugu Desam, mentre in Jammu & Kashmir e in Uttar Pradesh il segno corrisponde a due formazioni diverse.
Non godono della stessa tutela i partiti registrati (dunque democratici al loro interno), ma non riconosciuti perché meno rappresentativi: a loro spetta proporre il loro simbolo alla Commissione elettorale, che accetta la proposta se l'emblema non somiglia a quelli già in uso (in quel caso, propone anche delle alternative). Con le scissioni, ovviamente, le partite si complicano ancora di più, per cui tocca alla citata commissione intervenire e decidere.
Il fatto è che, se i partiti riconosciuti sono 31, quelli registrati e non riconosciuti sono 1737 e ciascuno deve adottare un simbolo diverso per i propri candidati; a questo si aggiunga, tra l'altro, che alle elezioni possono presentarsi candidati indipendenti, al di fuori di quegli stessi partiti, e questi avranno comunque bisogno di un simbolo per essere identificati. Se questo è il quadro, non stupisce che la ricerca di un contrassegno in India risulti particolarmente insidiosa.
Sarà per questa ragione che la commissione, anno per anno, si preoccupa di stilare una lista di "simboli liberi" (con tanto di allegato illustrato), tra cui le nuove formazioni possono pescare per distinguersi. L'elenco, rigorosamente in ordine alfabetico inglese, si apre con l'Almirah (un tipo particolare di armadio) e si chiude con la finestra aperta (Window), ma all'interno ce n'è davvero per tutti i gusti: dall'autorisciò a modelli di condizionatore e televisione di alcune ere geologiche fa, dalla mazza da cricket alla tromba, fino alle infradito, alla scacchiera da dama e alla tronchesina tagliaunghie. Fosse così in Italia, dove una schiera di micropartiti si contende i vecchi simboli di un tempo e i soggetti nuovi si combattono soprattutto a colpi di colori, senza grosse fantasie grafiche, qualcuno avrebbe un travaso di bile. Difficilmente qualcuno si piglierebbe il flauto (troppo forte il rischio di essere preso per "pifferaio magico"), il frullatore (oggetto che pochi parlamentari devono avere maneggiato) o il cavolfiore (va bene la deriva vegetale, ma passare da subito per un partito del cavolo, quello no...). Chissà infine se qualcuno, al di là degli avversari accaniti dello stato interventista, rivendicherebbe per sé le forbici: ai tagli siamo abituati, ma meglio farli senza schiaffarli addirittura nel proprio biglietto da visita grafico...

domenica 9 agosto 2015

L'Uomo qualunque, una Fortezza che resiste

Ufficialmente la data di nascita è il 18 febbraio 1946, eppure l'idea alla base del Fronte dell'Uomo qualunque risale giusto a settant'anni fa. Era l'8 agosto del 1945, infatti, quando Guglielmo Giannini, nato commediografo e convertito al giornalismo, invitò i lettori del suo giornale L'Uomo qualunque a raccogliersi e mettersi al lavoro per risolvere i problemi dell'Italia, "senza fuoriusciti di ritorno, senza professionisti politici, senza mestieranti di chiacchiere". Il Fronte di Giannini, come è noto, dopo una partenza consistente nel 1946, si squagliò alle politiche di due anni dopo (pur riuscendo a portare in Parlamento il suo ideatore) e non se ne seppe praticamente più nulla negli anni successivi: il suo simbolo dell'uomo schiacciato nel torchio si vide per l'ultima volta al Ministero dell'interno nel 1953, anche se in quell'anno Giannini tentò di farsi eleggere - senza riuscirci - nel Partito nazionale monarchico.
Nel 1972, tuttavia, l'emblema tradizionale del partito riapparve, sempre in bianco e nero, nelle bacheche del Ministero dell'interno, dopo un silenzio durato quasi vent'anni. A depositarlo fu Giuseppe Fortezza, qualificatosi come "segretario nazionale del Fronte dell'Uomo qualunque". Ma proprio lo stesso movimento? Beh, no, a quanto pare da quello che ci racconta lui stesso: "In realtà il Fronte è stato rifondato - spiega - del resto, quando operava Giannini, io ero decisamente piccolo, ero a Milano e ho visto le prime uscite del giornale L'Uomo Qualunque, di cui conservo la raccolta praticamente completa". 
L'anno in cui il movimento è stato nuovamente costituito Fortezza non lo ricorda, doveva essere tra il 1968 e il 1971; nel 1972, comunque, oltre che in bacheca l'emblema tornò anche sulle schede della Camera, esattamente nella circoscrizione Roma-Viterbo-Latina-Frosinone: il Fronte arrivò ultimo, ottenne poco più di mille voti dei quasi 2,8 milioni attribuiti in quel turno (lo 0,04%), ma nessuno dei candidati rimase a bocca asciutta. Il più votato - 152 preferenze - fu Cesare Crosta, avvocato già giudice contabile, più avanti fondatore del Partito monarchico nazionale (e non solo, come si vedrà); dopo di lui arrivò il medico Elio De Sensi (50 voti), gia candidato con Crosta nel Pmn nel 1968, mentre furono 5 persone a scrivere sulla scheda il nome di Fortezza. 
Nel 1979 il simbolo dell'Uq non finì in bacheca, ma Crosta, De Sensi e Fortezza furono candidati ugualmente: si ritrovarono nelle liste di Democrazia nazionale (assieme, tra l'altro, ai monarchici che facevano riferimento al disciolto Pdium) e, nella solita circoscrizione che comprendeva le province laziali tranne Rieti, ottennero rispettivamente 251, 98 e 82 voti. Il risultato, dunque, fu decisamente migliore, anche se Democrazia nazionale restò a bocca asciutta e, di fatto, concluse la sua esperienza. Nel 1983 De Sensi e Fortezza furono nuovamente messi in lista dal Partito monarchico nazionale (162 e 57 voti), mentre nel 1987 i due con il ritrovato Crosta figuravano tra i candidati del cartello Alleanza popolare, che si fregiava del simbolo del Movimento autonomista dei democratici progressisti: ciascuno si presentò in tre circoscrizioni, senza riuscite a conquistare un gran numero di preferenze.
Una piccola svolta si ha nel 1992: da una parte, nelle bacheche torna l'emblema dell'Uomo qualunque e, visto che per la prima volta le schede sono a colori, la U si tinge di rosso, com'era nella testata di Giannini; dall'altra, però, Crosta, De Sensi e Fortezza vengono candidati nelle circoscrizioni centromeridionali sotto il simbolo di Alberto da Giussano. Sì, proprio quello del Carroccio, che già allora aveva tentato lo sbarco sotto la linea gotica, sia pure con il nome di Lega Centro-Sud (formazione di cui proprio Crosta era coordinatore), più avanti nota come Lega Italia federale. Crosta fece meglio degli altri nella circoscrizione romana (380 preferenze, quando lì Bossi ne prese comunque oltre 7mila), ma era davvero difficile ottenere buoni risultati al centro-sud con un contrassegno che - essenzialmente per evitare la raccolta firme - conteneva la "pulce" della Lega lombarda.
Da allora, né De Sensi né Fortezza risultano più essere stati candidati a elezioni di livello nazionale; a quasi tutti gli appuntamenti che sono seguiti, però, l'emblema dell'Uomo qualunque è apparso nelle bacheche ministeriali, grazie alla pazienza di Giuseppe Fortezza che si è messo pazientemente in fila (giusto nel 2001, 2006 e 2008 al Viminale non lo hanno visto). "Me ne sono sempre occupato io - spiega, non senza una punta di orgoglio - e ogni volta per il deposito del simbolo c'è sempre interesse. In effetti noi non seguiamo esattamente il partito che fu di Giannini, anche se nome e logo sono quelli: il fatto è sono stati come abbandonati dai primi utilizzatori, noi siamo stati più rapidi di altri a depositarne il simbolo dopo che si era sostanzialmente perso il ricordo di quel partito". Non contento di presentare l'emblema al ministero, Fortezza lo ha anche fatto depositare all'Ufficio italiano brevetti e marchi nel 1993, rinnovando la domanda nel 2003 e nel 2013 e vedendosela sempre accogliere: l'immagine è descritta come "torchio che schiaccia un uomo da oscure mani". 
Pur con una partecipazione assolutamente sporadica alle elezioni (per il rinnovo di qualche consiglio comunale, ma il torchio apparve anche alle regionali venete del 1990, nella sola provincia di Treviso, per mano di Antonio Serena), il Fronte dell'Uomo qualunque continua a esistere: presieduto da Elio De Sensi fino alla sua morte, a guidarlo ora è lo stesso Fortezza (che prima ne era solo segretario nazionale, ora ne è pure presidente e ha 85 anni). "Ora siamo essenzialmente un gruppo di dirigenti nazionali, con i vari incarichi territoriali e tematici - chiarisce -. E' stato poi formato anche il gruppo "Una qualunque", praticamente l'associazione femminile, con tanto di segreteria nazionale e segreteria nazionale della gioventù".
Nonostante il silenzio prolungato, giusto vent'anni fa un'iniziativa di altra fonte provò a dare nuovo respiro all'immagine coniata da Giannini: "A Milano nel 1995 accadde una cosa particolare - ricorda Fortezza - perché alcune persone rispolverarono la testata L'Uomo qualunque; l'editore era un industriale farmaceutico del nord, noi venimmo a sapere della cosa ma quella volta accettammo che l'iniziativa proseguisse, del resto il marchio era registrato a nome mio e l'ultima parola toccava a noi. La cosa andò avanti per un paio di anni, dopo non ho più concesso il simbolo a nessuno, continuiamo a usarlo noi per le nostre attività". Attività che potrebbero riprendere, se arrivasse l'accordo con un partito forte a livello nazionale; Fortezza si sta muovendo in questo senso e spera di avere novità entro la fine dell'estate. Riuscirà l'Uomo qualunque a farsi votare di nuovo?

venerdì 7 agosto 2015

Area popolare, via i simboli di Ncd e Udc, ma senza dirlo

In fondo ci eravamo un po' abituati all'idea della "bicicletta con etichetta alla base": che Area popolare, almeno in una prima fase, portasse all'interno del proprio contrassegno i simboli del Nuovo centrodestra e dell'Unione di centro, nell'attesa che l'evoluzione politica portasse a un soggetto politico nuovo e "oltre" i partiti fondatori, era una cosa assolutamente normale. Eppure a qualche occhio attento potrebbe non dovrebbe essere sfuggito - sebbene nessuno ne abbia parlato seriamente fin qui - che le due formazioni, che da oltre un anno presentano emblemi congiunti in varie occasioni elettorali (ma non sempre, come la vicenda delle regionali 2015 ha mostrato), da alcune settimane sembrano aver fatto perdere le loro tracce, almeno nel segno distintivo comune.
Già, perché nel sito del gruppo di Area popolare alla Camera campeggia ancora il primo simbolo reso noto, almeno dal 30 giugno - così risulta da una delle immagini caricate sulla pagina facebook dei Deputati di Ap - è entrato in uso anche un diverso contrassegno, in cui domina decisamente il nome scelto per la creatura politica: "Area popolare", nella stessa font utilizzata per il Nuovo centrodestra (simile alla famiglia Nexa). Graficamente il cerchio interno, il cui colore di fondo riprende le stesse sfumature di Ncd, è diviso in due da un archetto tricolore a segmenti, che lascia sopra di sé il 60% dello spazio, con la scritta ben visibile, mentre la parte inferiore è tinta in un color aviatore più chiaro; il tutto è chiuso da una corona bianca e un filetto blu. 
Un'anticipazione dell'emblema, in realtà, si era vista già in occasione delle elezioni regionali della Liguria: stessa suddivisione grafica del cerchio, ma la parte sotto al tricolore era bianca e portava il nome della regione; per tutti gli elementi testuali, in compenso, era stata scelta una font Helvetica Black, leggermente compressa, forse un elemento di passaggio prima di optare per il tipo di carattere di Ncd. La struttura grafica del contrassegno ricordava poi quella di "Per l'Umbria popolare", formazione a sostegno di Claudio Ricci alle regionali umbre, non a caso sostenuta anche da Area popolare. L'emblema senza simboli originari è forse il segno di un passo avanti nella costruzione di una casa comune, anche in prospettiva di una lista unitaria obbligata, nella prospettiva dell'Italicum?