lunedì 10 agosto 2015

India, ovvero la carica dei 1800 simboli

Ogni tanto scartabellare nei milioni di fogli dei resoconti parlamentari è un'esperienza interessante. Prendete, per esempio, queste parole, pronunciate al Senato il 9 novembre 2007: "Qui dentro sono presenti dieci Gruppi parlamentari, forse 15 simboli. Sono, quindi, disponibili in tutto il Paese circa 50 milioni di simboli. Chi vuole restringere attraverso un emendamento che costringerebbe gli elettori a non trovare più il proprio simbolo? Nessuno. [...] Ci sono 50 milioni di simboli disponibili; sicuramente non devono essere disponibili i simboli dei Ds, di Alleanza Nazionale o della Democrazia Cristiana perché, se non si è d’accordo con questo, allora si è tutti nell’imbroglio e nella confusione".
A parlare era stato Mauro Cutrufo, allora senatore della Democrazia cristiana per le autonomie, mentre si discuteva della proposta - poi stralciata, tra l'esultanza di chi era fuori dal Parlamento e temeva di essere strozzato in culla - di creare un Registro per la tutela dei simboli di partito: il futuro vicesindaco di Roma, per evitare la confondibilità di alcuni partiti con le forze presenti in Parlamento e "registrate", proponeva l'uso di qualunque altro simbolo, purché non somigliasse a scudi crociati, fiamme tricolori, ulivi, bandierine tricolori, vessilli con falci e martelli, gabbiani, soli ridenti e così via. Per non rischiare bocciature, dunque, l'unica vera alternativa - anche per chi si riconosceva in una certa tradizione politica - era dare spazio alla fantasia.
Viene da chiedersi, allora, come si sarebbe trovato Cutrufo a fare politica in India. Già, perché nell'Unione indiana la scelta del simbolo è un affare drammaticamente serio: il tasso di analfabetismo è talmente alto che senza disegni ben riconoscibili è impossibile che la gente riconosca chi vuole (o "deve") votare; anche per questo, là esiste una Commissione elettorale che si occupa della materia (non solo di quella, naturalmente) e ci sono regole ben precise. Un'associazione che si qualifichi come partito e voglia poter ricevere contributi da privati deve registrarsi presso la commissione. 
Un particolare regime è previsto per i partiti "riconosciuti", nazionali (presenti almeno quattro stati dell'Unione indiana, con almeno cinque anni di attività continuativa) e quelli statali (rappresentati in meno stati, con un carattere maggiormente locale): questi soggetti, che attualmente sono 31 - 6 nazionali, gli altri statali - hanno garantito l'uso esclusivo del loro simbolo nello spazio territoriale relativo al loro riconoscimento (l'intera Unione o i singoli Stati): se anche non dovessero presentare candidati in quei luoghi nessuno potrà adottare quegli emblemi "riservati". Il discorso, ovviamente, si complica con i partiti statali, perché al di fuori degli ambiti territoriali protetti i loro emblemi saranno utilizzabili da altri partiti statali: nel ben noto stato del Kerala, ad esempio, la coppia vanga-pala può essere usata solo dal Partito socialista rivoluzionario e così pure nel Bengala occidentale, ma altrove il contrassegno potrebbe essere usato da altri; così avviene senz'altro per la bicicletta, che in Andhra Pradesh e Telangana è solo del partito Telugu Desam, mentre in Jammu & Kashmir e in Uttar Pradesh il segno corrisponde a due formazioni diverse.
Non godono della stessa tutela i partiti registrati (dunque democratici al loro interno), ma non riconosciuti perché meno rappresentativi: a loro spetta proporre il loro simbolo alla Commissione elettorale, che accetta la proposta se l'emblema non somiglia a quelli già in uso (in quel caso, propone anche delle alternative). Con le scissioni, ovviamente, le partite si complicano ancora di più, per cui tocca alla citata commissione intervenire e decidere.
Il fatto è che, se i partiti riconosciuti sono 31, quelli registrati e non riconosciuti sono 1737 e ciascuno deve adottare un simbolo diverso per i propri candidati; a questo si aggiunga, tra l'altro, che alle elezioni possono presentarsi candidati indipendenti, al di fuori di quegli stessi partiti, e questi avranno comunque bisogno di un simbolo per essere identificati. Se questo è il quadro, non stupisce che la ricerca di un contrassegno in India risulti particolarmente insidiosa.
Sarà per questa ragione che la commissione, anno per anno, si preoccupa di stilare una lista di "simboli liberi" (con tanto di allegato illustrato), tra cui le nuove formazioni possono pescare per distinguersi. L'elenco, rigorosamente in ordine alfabetico inglese, si apre con l'Almirah (un tipo particolare di armadio) e si chiude con la finestra aperta (Window), ma all'interno ce n'è davvero per tutti i gusti: dall'autorisciò a modelli di condizionatore e televisione di alcune ere geologiche fa, dalla mazza da cricket alla tromba, fino alle infradito, alla scacchiera da dama e alla tronchesina tagliaunghie. Fosse così in Italia, dove una schiera di micropartiti si contende i vecchi simboli di un tempo e i soggetti nuovi si combattono soprattutto a colpi di colori, senza grosse fantasie grafiche, qualcuno avrebbe un travaso di bile. Difficilmente qualcuno si piglierebbe il flauto (troppo forte il rischio di essere preso per "pifferaio magico"), il frullatore (oggetto che pochi parlamentari devono avere maneggiato) o il cavolfiore (va bene la deriva vegetale, ma passare da subito per un partito del cavolo, quello no...). Chissà infine se qualcuno, al di là degli avversari accaniti dello stato interventista, rivendicherebbe per sé le forbici: ai tagli siamo abituati, ma meglio farli senza schiaffarli addirittura nel proprio biglietto da visita grafico...

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