domenica 11 agosto 2019

Che si voti ora o più in là, si prepara una strage di simboli

Ora che la crisi di governo è aperta e sta per essere parlamentarizzata (nel senso che da lunedì se ne parlerà in Parlamento, a partire dalla conferenza dei capigruppo al Senato di domani), vale la pena di mettere in luce alcune questioni collaterali, che meritano un po' di attenzione. In queste pagine ovviamente non si prenderà posizione a favore di questa o di quella forza politica - non sarebbe giusto né rispettoso verso i lettori di ogni colore politico che qui si sono sentiti a loro agio - ma è il caso di concentrare l'attenzione su alcuni punti che hanno anche qualche riflesso "simbolico" e che sono tutt'altro che secondari, a ben guardare. Perché ci sono tutte le condizioni per una strage di simboli di proporzioni galattiche.

Avanspettacolo: il voto sulle mozioni

A determinare quale dei possibili finali la storia prenderà sarà il voto dei senatori sulle mozioni presentate dalla Lega (per sfiduciare il governo Conte) e dal Pd (per sfiduciare il solo ministro Salvini): nella capigruppo di lunedì si dovrebbe decidere proprio quando calendarizzare il voto, decidendo anche in quale ordine le mozioni dovranno essere votate
Evidentemente su questo punto si fronteggeranno due distinte posizioni: la prima vorrebbe applicare la c.d. "regola di Bentham" (già valida per decidere l'ordine di votazione degli emendamenti: prima quelli soppressivi, poi quelli sostitutivi, modificativi e aggiuntivi) votando prima sulla sfiducia al governo e poi al singolo ministro, dal momento che se prevalesse l'idea di "staccare la spina" all'esecutivo, sarebbe inutile esprimersi prima sulla permanenza in carica di un singolo componente; la seconda posizione, al contrario, vorrebbe votare prima sulla sfiducia a Salvini, sul presupposto che l'esito di quel voto potrebbe influenzare quello sulla sfiducia al governo (lasciando quindi intendere che qualcuno, tolto di mezzo Salvini, potrebbe anche decidere di non sfiduciare il governo o di non partecipare al voto, cosa che non sarebbe disposto a fare con il ministro dell'interno al suo posto).

Scenario 1: elezioni in autunno (ma intanto...)

Stabilito l'ordine ci sarà il voto. In caso di sfiducia, il Presidente della Repubblica attiverà le consultazioni innanzitutto per verificare l'esistenza di un'eventuale maggioranza per un nuovo governo (ipotesi né semplice né impossibile, in ogni caso da verificare, anche guardando all'azione di Sergio Mattarella negli anni scorsi); se nessuna maggioranza emergerà, anche solo per un governo meramente elettorale, resterà solo l'opzione dello scioglimento delle Camere, con il voto in autunno. In questi giorni si era parlato di una domenica di ottobre, ma in ogni caso le elezioni dovrebbero tenersi entro la metà di novembre e la data limite dipenderebbe dal giorno dello scioglimento, dal quale decorrerebbe il termine - previsto dall'art. 61, comma 1 Cost. - entro il quale devono svolgersi nuove elezioni politiche. Il procedimento elettorale inizierebbe ufficialmente non oltre i primi giorni di ottobre, con il deposito dei contrassegni al Viminale; se però si votasse il 13 ottobre, i simboli dovrebbero essere depositati - e dunque anche definiti - tra il 30 agosto e il 1° settembre
Non è inutile ricordare che questa soluzione creerebbe non pochi problemi. Innanzitutto, entro il 26 agosto sarebbe attesa l'indicazione del nome del commissario europeo spettante all'Italia; il 15 ottobre, poi, il documento programmatico di bilancio dovrebbe comunque essere trasmesso alla Commissione europea e all'Eurogruppo (e prima ancora, cioè entro la fine di settembre, dovrebbe essere aggiornato il Documento di economia e finanza e il ministero del Tesoro dovrebbe produrre la Relazione sul conto consolidato di cassa relativa al primo semestre 2019), poi in ogni caso si aprirebbe la sessione per discutere e approvare la legge di bilancio e di stabilità. Certo, ci sarebbe comunque un governo in carica per l'ordinaria amministrazione, ma queste non sembrano esattamente questioni di quel tipo e, in ogni caso, hanno un pesante valore politico.

Scenario 2: si vota sul taglio dei parlamentari?

Se, al contrario, emergerà la possibilità di una nuova maggioranza, i tempi per le elezioni si allungheranno inevitabilmente: e questo a prescindere dal destino della riforma costituzionale per il taglio dei parlamentari. Certo è che se questa fosse approvata in quarta lettura dalla Camera, la vita della legislatura in corso si allungherebbe, e non per questioni di opportunità ma di diritto costituzionale. Già in terza lettura al Senato, infatti, il testo non è stato approvato con una maggioranza dei due terzi (ma solo con la maggioranza assoluta= ed è assai probabile che lo stesso accada alla Camera: anche se non sarà così, l'art. 138, comma 2 Cost. prevede che la riforma possa essere sottoposta a referendum ove, "entro tre mesi dalla [...] pubblicazione" in Gazzetta Ufficiale, ne facciano richiesta un quinto dei membri di una Camera, 500mila elettori o cinque consigli regionali. 
La richiesta potrebbe non esserci (e non è affatto detto che non arrivi, soprattutto da un fronte parlamentare trasversale contrario al taglio, non troppo preoccupato di apparire "difensore della Casta"), ma i tre mesi dalla pubblicazione si dovrebbero attendere comunque: non si potrebbe quindi votare subito e questo evidentemente sposterebbe già di per sé le elezioni al prossimo anno (e questo anche nell'ipotesi in cui il quarto voto sulla riforma venisse anticipato ad agosto). Se poi la richiesta arrivasse e l'Ufficio centrale per il referendum la ritenesse legittima, a norma della legge n. 352/1970 il Consiglio dei ministri dovrebbe entro 60 giorni indire il referendum, che a sua volta dovrebbe svolgersi "in una domenica compresa tra il 50° e il 70° giorno successivo all'emanazione del decreto di indizione", il che si tradurrebbe in minimo due mesi complessivi di attesa (a voler far davvero in fretta), che quindi si aggiungerebbero ai tre già attesi per le richieste di referendum.

Scenario 2.1: Collegi da ridisegnare

Qualora al referendum sulla revisione costituzionale (per il quale non è previsto il quorum) prevalessero i sì, si avrebbe lo stesso effetto dei tre mesi trascorsi senza richieste di referendum. Si potrebbe votare subito dopo, in quel caso? Più o meno, ma proprio subito no. In effetti in questi mesi si è compiuto un passo per ridurre i tempi, anche se è avvenuto quasi nel silenzio (o nel disinteresse generale): la recentissima legge 26 maggio 2019, n. 51 ha infatti modificato il testo delle disposizioni per eleggere i deputati e i senatori sul territorio italiano, eliminando l'indicazione dei numeri dei seggi da attribuire nei collegi uninominali e stabilendo che quei seggi sono pari a tre ottavi di tutti gli scranni attribuibili in ciascun ramo del Parlamento. L'idea di fondo - illustrata nella relazione al disegno di legge S. 881, a prima firma del senatore M5S Gianluca Perilli, cofirmato dal leghista Roberto Calderoli e dall'altro M5S Stefano Patuanelli - era di "rendere neutra, rispetto al numero dei parlamentari fissato in Costituzione, la normativa elettorale per le Camere", garantendo "che il Parlamento sia in ogni momento rinnovabile" ed evitando lacune normative in grado di paralizzare lo scioglimento delle Camere e la macchina delle elezioni.
Si è voluto dunque accelerare i tempi, ma almeno un passaggio non si può evitare: l'eventuale entrata in vigore della revisione costituzionale che taglia il numero dei parlamentari richiederebbe per forza la determinazione dei nuovi collegi uninominali e plurinominali di Camera e Senato. Facendo l'esempio con la Camera, gli uninominali passerebbero da 231 a 146 (inclusi quelli di Trentino - Alto Adige e Molise, escluso il collegio della Valle d'Aosta) quindi è ovvio che dovrebbero essere ridisegnati quasi tutti e altrettanto varrebbe per quelli plurinominali. La legge approvata a maggio contiene già la delega eventuale al governo in materia e la rideterminazione dei collegi dovrebbe avvenire con un decreto legislativo, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale, mentre - secondo quanto già previsto dalla riforma elettorale approvata alla fine del 2017 - il lavoro pratico "a monte" per ridisegnare i collegi toccherebbe a una commissione di esperti presieduta dal presidente dell'Istat (commissione alla quale, come l'esperienza insegna, generalmente viene messa una fretta indiavolata perché finisca i lavori al più presto). E quel lavoro non potrebbe nemmeno essere anticipato - a rigore - nei tempi che dovessero precedere l'eventuale referendum: la delega al governo scatterebbe solo in caso di promulgazione della riforma costituzionale, non di semplice pubblicazione in attesa di referendum.

Scenario 2.2: Parlamentari tagliati e partiti sbarrati

Una volta determinati i collegi, la macchina elettorale potrebbe finalmente partire e le forze politiche potrebbero decidere chi candidare e dove. Dovrebbero però avere ben presente -tutte - una cosa: ne sopravviveranno pochissimi, molti meno di prima e, soprattutto, molti di meno di quello che la legge suggerirebbe. E non si tratta solo di un effetto fisiologico dato dal passare da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori (392 e 196 dei quali da eleggere in Italia).
Il fatto è che nella legge elettorale, come risultante dalle modifiche apportate via via, in particolare dalle riforme del 2015 e del 2017, è tuttora prevista, tra l'altro, una soglia di sbarramento del 3% per accedere alla ripartizione proporzionale dei 5/8 dei seggi, vale a dire 245 alla Camera e 117 al Senato. Già così sarebbe facile vedere che, se tutto fosse un semplice gioco percentuale, a un partito appena sopra soglia toccherebbero 7 seggi alla Camera e 4 al Senato, decisamente poca roba; eppure le cose sono molto più complesse. Ne parla da settimane soprattutto il deputato piemontese di Liberi e Uguali Federico Fornaro; gli ha dedicato spazio soprattutto Ettore Maria Colombo (dal cui blog provengono i dati che seguono), sottolineando gli effetti pesanti del taglio dei parlamentari sulla rappresentanza, soprattutto al Senato.
Per capire le dimensioni del problema, occorre ricordare che, per le norme elettorali in vigore, la ripartizione dei seggi è svolta su scala nazionale alla Camera e su scala regionale, dunque regione per regione, al Senato: questo per rispettare il dettato dell'art. 57, comma 1 Cost, in base al quale il Senato è eletto "a base regionale". Una volta verificato quali liste e coalizioni hanno superato le soglie di sbarramento previste, si compie una prima operazione sommando tutti i voti espressi a favore di liste o coalizioni e dividendo tale somma di voti per il numero di seggi da attribuire con la quota proporzionale nel collegio plurinominale; successivamente, si divide il numero di voti ottenuto da ogni singola lista non coalizzata o coalizione per il numero ottenuto (definito "quoziente elettorale", che dice in pratica a quanti voti equivale un seggio); il risultato ottenuto, senza decimali, equivale ai seggi che spettano alla singola coalizione o lista "sciolta" (se la somma delle parti intere è più bassa del numero di seggi da assegnare, quelli restanti si distribuiscono in base ai maggiori resti); da ultimo, si distribuiscono i seggi spettanti alle coalizioni tra le liste sopra soglia che ne fanno parte. 
Questo complesso di operazioni, come ricordato sopra, dev'essere svolto a livello nazionale per la Camera, in ogni singola regione per il Senato. La questione è tutto meno che secondaria: la difficoltà di ottenere un seggio in questa o in quella regione, infatti, si lega strettamente al numero di senatori attribuiti a ciascuna regione; più è basso il numero, più è difficile ottenere eletti anche ottenendo percentuali rilevanti. Le regioni che contano su almeno dieci senatori passerebbero da 10 a 9 (Lombardia, Lazio, Campania, Sicilia, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna, Puglia, Toscana); se si guarda ai seggi da distribuire con il sistema proporzionale, però, disporrebbero di almeno dieci scranni solo Lombardia (19), Lazio (11), Campania (11) e Sicilia (10). 
Questi numeri dovrebbero essere più facili da leggere: per assicurarsi un seggio a livello regionale se quelli disponibili sono dieci, occorrerebbe avere almeno il 10% dei voti espressi in quella regione. In pratica, una lista che ottenesse il 5% a livello nazionale, in quella singola regione non otterrebbe nulla, perché non ci sarebbero seggi per questa in base al riparto proporzionale; potrebbe avere qualche speranza in più una lista che arrivasse vicina al 9%, se non altro perché per legge non parteciperebbero alla somma totale dei voti le liste non coalizzate che non hanno ottenuto il 3%, dunque la percentuale del 9% calcolata sul totale dei voti potrebbe pesare di più se il calcolo si riferisse a una platea di voti più ristretta, in presenza di una sensibile dispersione di voti (es.: 90 voti su 1000 sono il 9%, ma se 55 voti sono finiti a liste non coalizzate che non hanno superato la soglia del 3%, il totale dei voti da considerare non è più 1000 ma 945 e i 90 voti di prima "pesano" come se fossero un 9,52%; se poi i voti "dispersi" fossero 110, magari spalmati su quattro liste, su un totale di 890 i 90 voti "peserebbero" per il 10,1%). 
In ogni caso, al Senato anche liste ben sopra il 3% resterebbero senza rappresentanza in regioni diverse dalla Lombardia (in cui, comunque, bisognerebbe superare benino il 5% per stare al sicuro). Una lista media o medio-piccola, se inserita in una coalizione, potrebbe salvarsi puntando sui collegi uninominali, a patto di riuscire a "imporre" alla coalizione propri candidati in collegi relativamente sicuri, in una sorta di "pretesa di tribuna": ormai, però, quelli davvero "blindati" sono pochi e non è affatto detto che i partiti maggiori della coalizione siano disposti a cederli, visto il taglio dei parlamentari. Di certo, le liste non coalizzate non particolarmente forti non potrebbero contare nemmeno su quella strada: se la Lega andasse da sola di certo non avrebbe problemi (né sull'uninominale né sul proporzionale), mentre qualche problema in più potrebbe averlo già il M5S in alcune regioni e sicuramente lo avrebbe qualunque altra forza politica (comprese Forza Italia e Fratelli d'Italia, per non parlare di +Europa o della sinistra) che dovesse immaginare una corsa solitaria, ma anche in coalizione con partiti molto più forti.
L'effetto principale della riforma costituzionale ed elettorale (che, come sottolineato da Colombo nel suo articolo, sarebbe il calco del taglio dei parlamentari proposto nella scorsa legislatura da Gaetano Quagliariello), dunque, a valle sarebbe un ulteriore sbarramento alle forze politiche, ma già a monte si ridurrebbero drasticamente i simboli presenti sulla scheda elettorale, almeno su quella del Senato: l'asticella alta o altissima in gran parte delle regioni farebbe desistere, forse, anche solo le battaglie di testimonianza, suggerendo alle forze minori di puntare piuttosto a federarsi con partiti esistenti, chiedendo loro di ospitare propri candidati nelle loro liste bloccate (difficile però che vengano messi in buona posizione, per lo stesso motivo visto prima). Alla Camera il problema sarebbe meno grave, se non altro perché - come detto prima - la distribuzione dei seggi si fa a livello nazionale, quindi è più facile ottenere percentuali utili su 245 seggi; di certo, però, diventerebbe ancora più difficile di ora riuscire a prevedere, per le forze minori, dove potrebbero uscire i pochi seggi conquistati (e quanti sarebbero).

Incidente comune: lo sbarramento delle firme (continua...)

Questi, dunque, sarebbero gli effetti della riforma, che chi scrive non vorrebbe e per evitarli è disposto ad accettare che lo Stato non riesca a risparmiare 500 milioni a legislatura (la democrazia costa: meglio risparmiare altrove che sulla rappresentanza); altri, naturalmente, sono liberi di preferire il taglio dei parlamentari per non avere più il Parlamento "più affollato d'Europa", quanto agli eletti (il che è vero, oggettivamente).
In ogni caso, che la riforma vada in porto o no e, prima ancora, che dopo agosto ci sia o meno una maggioranza, prima o poi alle urne si dovrà tornare e il numero di simboli sulle schede rischia di essere ridottissimo anche senza taglio dei parlamentari. In base alle norme vigenti, infatti, gli unici soggetti che potrebbero presentare candidature senza altre formalità sono quelli che hanno un gruppo parlamentare in entrambe le Camere dall'inizio della legislatura (M5S, Pd, Lega, Forza Italia, Fratelli d'Italia) o che rappresentano minoranze linguistiche e abbiano ottenuto almeno un seggio (salvo errore, Svp-Patt, Uv). Tutti gli altri soggetti eventualmente interessati a partecipare, anche se presenti in Parlamento, dovrebbero raccogliere e autenticare almeno 1500 firme per ogni collegio plurinominale; eccezionalmente, trattandosi di elezioni anticipate, il numero minimo scenderebbe a 750. 
Il compito oggi si presenta piuttosto difficile, soprattutto per forze non troppo diffuse sul territorio; potrebbe esserlo meno se passasse la riforma (i collegi plurinominali alla Camera sarebbero di meno), ma a giudicare dagli sforzi fatti da molti partiti a livello nazionale e regionale per evitare di raccogliere le firme, il compito si presenta ugualmente difficile per molti (persino per partiti con una buona presenza in Parlamento). La questione è seria, ma merita di essere trattata con più attenzione, dopo Ferragosto. Intanto, prepariamoci a una moria di simboli mai vista prima.

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