giovedì 31 dicembre 2020

Il 2020 finisce (per fortuna), la gratitudine no!

Con questo giorno salutiamo il 2020
, probabilmente non vedendo l'ora di lasciarcelo alle spalle, per motivi che - naturalmente - con i simboli non hanno proprio nulla a che fare. La pandemia da Coronavirus ha segnato l'intero paese e, senza dubbio, ciascuna persona appartenente alla categoria dei #drogatidipolitica. In certi periodi, quando la situazione è stata più difficile e più pesante da vivere, si è ritenuto inopportuno scrivere; si è comunque cercato di dare copertura a gran parte delle notizie rilevanti, anche in quei periodi, pur con tutti i limiti legati alle condizioni di quei momenti.
Inevitabilmente, com'è noto, la Covid-19 ha avuto effetti anche sulle consultazioni elettorali previste nel 2020. Dopo le elezioni regionali di gennaio (che hanno interessato Emilia-Romagna e Calabria) e le prime tre suppletive (relative a Napoli, Roma e all'Umbria), infatti, si è reso necessario un rinvio del turno elettorale primaverile, nonché del referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari, inizialmente previsto per il 29 marzo. La scelta di rinviare gli appuntamenti con il voto non è stata priva di polemiche, soprattutto nella scelta delle nuove date; sull'affollamento delle schede, tra l'altro, ha avuto notevole influenza la scelta di ridurre drasticamente una tantum il numero delle firme necessarie, al fine di ridurre i rischi di contagio e rimediare alle maggiori difficoltà nella ricerca di sottoscrittori). Il 20 e il 21 settembre, in ogni caso, si sono tenute le elezioni regionali in Valle d'Aosta, Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania e Puglia, nonché varie amministrative (oltre a quelle che si sono svolte in Sicilia e Sardegna nelle settimane successive), le suppletive in Sardegna e in Veneto e, per l'appunto, il referendum. In quell'occasione il sito è riuscito a coprire tutte le elezioni suppletive e regionali (con attenzione anche per il procedimento preparatorio e per i ricorsi presentati in Toscana e in Veneto, da più liste), nonché una parte significativa dei capoluoghi di provincia interessati dal rinnovo: questo è stato possibile grazie all'impegno confermato (e mai abbastanza ringraziato) di Antonio Folchetti, attento e appassionato osservatore di sfide e contesti elettorali.
Anche quest'anno, naturalmente, l'analisi degli appuntamenti elettorali è stata completata dal viaggio nei comuni "sotto i mille" curato da Massimo Bosso (al centro-sud e al nord), aperta dall'incredibile caso che ha interessato il comune di Carbone nel potentino, con le dimissioni immediate del candidato vincitore, forestiero come l'unico altro contendente; questo evento inimmaginabile qualche tempo prima - ma fondamentalmente in linea con alcuni degli episodi raccontati da Bosso e da me nel nostro libro M'imbuco a Sambuco! - ha suggerito maggiori indagini su questi fenomeni riscontrabili nei microcomuni (che hanno portato, tra l'altro, tanto me quanto Massimo a essere intervistati da Pinuccio per Striscia la notizia) e anche a studiare possibili modifiche alle norme che finora hanno reso appetibile la presentazione di liste formate da personale delle forze di Polizia
La pandemia e le sue conseguenze, tuttavia, hanno avuto almeno un altro effetto rilevante per questo sito: il lockdown ha infatti suggerito di organizzare sotto le insegne di I simboli della discordia alcuni eventi di presentazione online di libri in qualche modo a tema simbolico. La serie è stata aperta dalla presentazione di Un socialista a Palazzo Chigi, scritto dall'amico Vincenzo Iacovissi e pubblicato nel ventesimo anniversario della morte di Bettino Craxi: di esperimento si è trattato, messo in atto a maggio su suggerimento dell'autore e dell'amico Francesco Morganti, è l'esito è stato confortante. Si è così aperta la sezione video del sito, nella quale sono state inserite anche le conversazioni successive: quelle legate a M'imbuco a Sambuco! (con Massimo Bosso e, a settembre, con Federico Dolce del Centro Studi Argo) e sui simboli popolari e democristiani (organizzata dai Popolari di Moncalieri), nonché le presentazioni dei libri La Repubblica nel pallone (con gli autori Fabio Belli e Marco Piccinelli) e Demodissea (con l'autore Ettore Bonalberti). Altre conversazioni e presentazioni, se sarà possibile, saranno organizzate in futuro, con la certezza che altro materiale interessante sul piano "simbolico" sarà pubblicato: intanto mancano pochissimi giorni alla presentazione del libro di Giovanni Diamanti sulle campagne elettorali (di cui si è già scritto mesi fa), prevista per il 4 gennaio, ma altri incontri sono in cantiere. 
Tra i volumi rilevanti pubblicati quest'anno c'è sicuramente Padania separatista, curato dall'Associazione Gilberto Oneto e pubblicato da Leonardo Facco editore: si è dato volentieri spazio a questo volume, che tra gli autori annovera anche Roberto Gremmo: proprio di Gremmo si è continuato a ripercorrere la storia politica ed elettorale, che peraltro ha ancora molte altre puntate - quasi sempre legate a nuovi simboli - da ricordare (per ora si è arrivati al 1993); un'altra storia rilevante, che si è iniziato a considerare, è quella di Filippo De Jorio, legata prima alla Democrazia cristiana poi a varie formazioni di centrodestra vicine ai pensionati. Altre pagine rilevanti sono state dedicate ai volumi dedicati a Craxi, in occasione del ricordato ventennale della scomparsa, ai Millelire di Stampa alternativa - nuovamente disponibili - centrati sulla fantasia applicata alle schede nulle, alle organizzazioni di partito giovanili tuttora esistenti, alla trilogia editoriale dedicata alle elezioni da Luca Tentoni, nonché ai progetti di alcuni militanti storici della Lega Nord di riutilizzare il simbolo alle elezioni amministrative, alla candidatura di Renato Angiolillo nel 1948 sotto le insegne del suo giornale e a un episodio del 2004, quando a Torino si fece una lista per cercare di salvare la memoria del vecchio stadio del Toro; si sono ripercorse le vicende "simboliche" di Giulietto Chiesa e Arturo Diaconale, morti quest'anno (nonché un piccolo cammeo su Maradona e sulle sue imprevedibili rilevanze per i #drogatidipolitica); si è infine data attenzione - com'era naturale attendersi - alle nuove e certo non ultime puntate della vicenda della Democrazia cristiana e dello scudo crociato, tra congressi ripetuti, diffide, contenziosi e federazioni annunciate e avviate ma assai dure all'avvio. 
Da ultimo, non posso non ricordare gli incontri con coloro che, disegnando alcuni simboli fondamentali della storia politica italiana, hanno potuto raccontare determinate vicende da un punto di vista privilegiato e davvero arricchente (innanzitutto per me che ho potuto ascoltare). Dopo il primo fondamentale dialogo dello scorso anno con Bruno Magno sul simbolo del Pds (ma altrettanto prezioso è stato il suo spunto a intraprendere una ricerca sul "Galluccio" quasi dimenticato tra i simboli della Costituente), questa volta ci si è concentrati sui garofani socialisti, sempre approfittando dei vent'anni trascorsi dalla morte di Craxi e sperando che il passaggio del tempo consenta valutazioni più oggettive e distaccate: prima è venuto l'incontro con Ettore Vitale, autore del simbolo adottato nel 1979 e responsabile per vent'anni dell'immagine del partito; in seguito si è dato conto di un lunghissimo e denso confronto con Filippo Panseca, che ha ripercorso le sue molte vite da artista, il suo rapporto con Craxi e la realizzazione del "suo" garofano, senza più falce e martello. Altri incontri sono stati nel frattempo svolti o preparati: appena possibile se ne darà conto.
Come bonus track di quest'anno - tanto singolare da volerlo dimenticare in fretta - ci si può concedere qualche escursione nel fantastico, perché difficilmente i #drogatidipolitica si sottraggono a ciò. Così, se Massimo Bosso si è avventurato a immaginare le Elezioni galattiche di Guerre stellari, chi scrive ha cercato - giusto pochi giorni fa - di inquadrare l'opera di Gianni Rodari in una dimensione latamente politica, che merita di essere considerata da chiunque, specie in un anno come questo in cui la mente è stata funestata di continuo da pensieri tristi. C'è da sperare con tutto il cuore che ciò non si ripeta nell'anno che sta per iniziare, con l'auspicio che la squadra allargata che ha permesso e permette a questo sito di crescere si ampli ancora di più. L'elenco ha raggiunto ormai una lunghezza spaventosa, ma è un buon segno, anzi ottimo. A chi c'è stato, a chi c'è e a chi vorrà esserci, per poco o per molto, GRAZIE! 

P.S. Anche se la squadra non cambia (al massimo si allarga), è venuto il momento di aggiornare almeno in parte la testata del sito: dopo otto anni e mezzo di permanenza, è il caso di renderla ancora più simile ai contenuti di queste pagine, che con il tempo si sono arricchiti e meritano di comparire là in alto, per ricordarci della loro esistenza.

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Grazie a Martino Abbracciavento, Ignazio Abrignani, Giovanni Acquarulo, Mario Adinolfi, Guglielmo Agolino, Tiziana Aicardi, Tiziana Albasi, Mauro Alboresi, Alberto Alessi, Francesca Alibrandi, Alfonso Alfano, Angela Allegria, Antonio Amico, Antonio Angeli, Leoluca Armigero, Antonio Atte, Luca Bagatin, Cristina Baldassini, Laura Banti, Marcello Baraghini, Daniele Barale, Amedeo Barbagallo, Paolo Barbi, Mario Bargi, Enzo Barnabà, Giovanni Barranco, Chiara Maria Bascapè, Maruzza Battaglia, Americo Bazzoffia, Giovanni Bellanti, Fabio Belli, Pierpaolo Bellucci, Marco Beltrandi, Francesco Benaglia, Giulia Benaglia, Valentina Bendicenti, Pierangelo Berlinguer, Roberto Bernardelli, Rita Bernardini, Enrico Bertelli, Giuseppe Berto, Niccolò Bertorelle, Alberto Bevilacqua, Diego "Zoro" Bianchi, Laura Bignami, Raffaella Bisceglia, Mauro Biuzzi, Fabio Blasigh, Paolo Bonacchi, Enzo Bonaiuto, Ettore Bonalberti, Paola Bonesu, Andrea Boni, Mauro Bondì, Fabio Bordignon, Salvatore BorgheseMichele Borghi, Lorenzo Borré, Renzo Bortolot, Massimo Bosso, Francesco Bragagni, Carlo Branzaglia, Franco Bruno, Andrea Bucci, Giampiero Buonomo, Antonio Burton Cerrato, Mario Cabeddu, Giovanni Cadioli, Luca Calcagno, Mauro Caldini, Stefano Camatarri, Francesco Campopiano, Elisabetta Campus, Aurelio Candido, Maria Antonietta Cannizzaro, Roberto Capizzi, Monica Cappelletti, Luca Capriello, Giovanni Capuano, Jacopo Capurri, Giuseppe Carboni, Vito Cardaci, Francesco Cardinali, Nicola Carnovale, Elena Caroselli, Robert Carrara, Cosimo Damiano Cartelli, Roberto Casciotta, Michele Casolaro, Pierluigi Castagnetti, Marco Castaldo, Filippo Ceccarelli, Luigi Ceccarini, Mirella Cece, Luca Cenatiempo, Raffaele Cerenza, Cristiano Ceriello, Luciano Cheles, Gioia Cherubini, Giancarlo Chiapello, Luciano Chiappa, Giovanni Chiarini, Emanuele Chieppa, Beppe Chironi, Marco Chiumarulo, Pierpaolo Ciappetta, Giancarlo Ciaramelli, Angelo Ciardulli, Valerio Cignetti, Valentina Cinelli, Mauro Cinquetti, Giuseppe Cirillo, Massimo Cirri, Giulia Civiletti, Roman Henry Clarke, Daniele Coduti, Antonia Colasante, Emanuele Colazzo, Manlio Collino, Emiliano Colomasi, Ettore Maria Colombo, Fabrizio Comencini, Daniele Vittorio Comero, Francesco Condorelli Caff, Nicola Consiglio, Carmelo Conte, Antonio Conti, Pietro Conti, Francesco Corradini, Carlo Correr, Antonio Corvasce, Cristina Costantini, Andrea Covotta, Graziano Crepaldi, Vito Crimi, Francesco Crocensi, Natale Cuccurese, Emilio Cugliari, Francesco Cundari, Johnathan Curci, Luca Cristini, Salvatore Curreri, Francesco Curridori, Francesco D'Agostino, Nicola D'Amelio, Gabriele D'Amico, Michele D'Andrea, Roberto D'Angeli, Renato D'Emmanuele, Serafino D'Onofrio, Ferdinando D'Uva Cifelli, Alessandro Da Rold, Pierluca Dal Canto, Roberto Dal Pan, Paolo Dallasta, Marco "Makkox" Dambrosio, Fabrizio De Feo, Gianluca De Filio, Filippo De Jorio, Francesco De Leo, Pietro De Leo, Stefano De Luca, Pino De Michele, Carlo De Micheli, Antonio De Petro, Mario De Pizzo, Giancarlo De Salvo, Roberto De Santis, Donato De Sena, Franco De Simoni, Mauro Del Bue, David Del Bufalo, Alessandro Del Monaco, Paola Dell'Aira, Maurizio Dell'Unto, Benedetto Della Vedova, Riccardo DeLussu, Alfio Di Costa, Dario Di Francesco, Roberto Di Giovan Paolo, Alberto Di Majo, Alfio Di Marco, Marco Di Nunzio, Antonino Distefano, Alessandro Di Tizio, Antonino Di Trapani, Giovanni Diamanti, Ilvo Diamanti, Raffaele Dobellini, Federico Dolce, Alessandro Duce, Filippo Duretto, Daniele Errera, Filippo Facci, Leonardo Facco, Giuseppe Alberto Falci, Arturo Famiglietti, Gianni Fava, Giovanni Favia, Luigi Fasce, Paolo Ferrara, Emilia Ferrò, Antonio Fierro, Giulia Fioravanti, Roberto Fiore, Francesca Fiorletta, Antonio Floridia, Antonio Folchetti, Gianni Fontana, Cinzia Forgione, Gianluca Forieri, Ciro Formicola, Riccardo Forni, Gabriella Frezet, Iztok Furlanič, Massimo Galdi, Vincenzo Galizia, Vincino Gallo, Elisa Gambardella, Riccardo Gandini, Federico Gandolfi, Uberto Gandolfi, Luciano Garatti, Carlo Gariglio, Paolo Garofalo, Francesco Gasbarro, Marcello Gelardini, Chiara Geloni, Alessandro Genovesi, Tommaso Gentili, Mattia Giacometti, Alessio "Pinuccio" Giannone, Alessandro Gigliotti, Marco Giordani, Michele Giovine, Andrea Gisoldi, Carlo Gustavo Giuliana, Bruno Goi, Renato Grassi, Roberto Gremmo, Antonio Guidetti, Massimo Gusso, Vincenzo Iacovino, Vincenzo Iacovissi, Antonino Ingrosso, Mauro Incerti, Paolo Inno, Matteo Iotti, Roberto Jonghi Lavarini, Luca Josi, Tommaso Labate, Piero Lamberti, Orione Lambri, Giacomo Landolfi, Piero Lanera, Calogero Laneri, Lisa Lanzone, Angelo Larussa, Michele Lembo, Marco Lensi, Pellegrino Leo, Raffaella Leonardi, Luca Leone, Ferdinando Leonzio, Raffaele Lisi, Giovanni Litt, Max Loda, Dario Lucano, Nino Luciani, Maurizio Lupi (il Verde-Verde), Bruno Luverà, Chiara Macina, Angela Maenza, Cesare Maffi, Mimmo Magistro, Bruno Magno, Lucio Malan, Alex Magni, Francesco Magni, Marco E. Malaguti, Francesco Maltoni, Enzo Mancini, Pietro Manduca, Renato Mannheimer, Silvja Manzi, Andrea Maori, Gian Paolo Mara, Enzo Maraio, Roberto Marchi, Federico Marenco, Gherardo Marenghi, Marco Margrita, Luca Mariani, Marco Marsili, Carlo Marsilli, Leonardo Martinelli, Dario Martini, Antonio Massoni, Angela Mauro, Angelo Mauro, Federico Mauro, Paola Meinardi, Angelo Orlando Meloni, Elisa Meloni, Marcello Menni, Stefano Mentana, Giorgio Merlo, Amalia Micali, Vincenzo Miggiano, Antonio Modaffari, Rosanna Montecchi, Nicolò Monti, Roberto Morandi, Raffaello Morelli, Matteo Moretto, Francesco Morganti, Mara Morini, Claretta Muci, Pietro Murgia, Paola Murru, Alessandro Murtas, Tomaso Murzi, Antonio Murzio, Cristiana Muscardini, Alessandro Mustillo, Paolo Naccarato, Francesco Napoli, Donato Natuzzi, Ippolito Negri, Claudio Negrini, Fabio Massimo Nicosia, Davide Nitrosi, Gianluca Noccetti, Marzia Novellini, Vincenzo Carmine Noviello, Enrico Olivieri, Matteo Olivieri, Oradistelle, Fabrizio Orano, Laura Pacelli, Gabriele Paci, Libera Ester Padova, Andrea Paganella, Roberto Pagano, Pierluigi Pagliughi, Enea Paladino, Lanfranco Palazzolo, Paolo Palleschi, Carmelo Palma, Giovanni Ciro Palmieri, Enzo Palumbo, Massimiliano Panarari, Max Panero, Filippo Panseca, Margherita Paoletti, Federico Paolone, Fabio Pariani, Massimo Parecchini, Ottavio Pasqualucci, Gianluca Passarelli, Oreste Pastorelli, Alan Patarga, Ivan Pavesi, Lorenzo Pavoncello, Stefano Perini, Giacomo Peterlana, Rinaldo Pezzoli, Antonio Piarulli, Marco Piccinelli, Daniele Piccinin, Flavia Piccoli Nardelli, Fabrizio Pignalberi, Francesco Pilieci, Gianluca Pini, Marco Pini, Marco Piraino, Stefania Piras, Piero Pirovano, Irma Liliana Pittau, Candida Pittoritto, Elisa Pizzi, Matteo Pizzonia, Marina Placidi, Vladimiro Poggi, Carlandrea Poli, Vittorio Polieri, Alfredo Politano, Mauro Polli, Nicola Porfido, Aldo Potenza, Giuseppe Potenza, Lorenzo Pregliasco, Cesare Priori, Giulio Prosperetti, Carlo Prosperi, Matteo Pucciarelli, Franco Puglia, Simona Pulvirenti, Riccardo Quadrano, Renzo Rabellino, Andrea Rauch, Michele Redigonda, Maurizio Ribechini, Livio Ricciardelli, Egle Riganti, Matteo Riva, Francesco Rizzati, Giuseppe Rizzi, Marco Rizzo, Lamberto Roberti, Donato Robilotta, Luca Romagnoli, Giuliano Giuseppe Romani, Federico Rossi, Giovanni Rossi, Giuseppe Rossodivita, Gianfranco Rotondi, Sergio Rovasio, Salvatore Rubbino, Simonetta Rubinato, Roberto Ruocco, Mariagrazia Russo, Giampaolo Sablich, Stefano Salmè, Elio Salvai, Angelo Sandri, Maurizio Sansone, Aldo Santilli, Egidio Santin, Ugo Sarao, Anna Sartoris, Alessandro Savorelli, Jan Sawicki, Tonino Scala, Gian Franco Schietroma, Francesco Sciotto, Renato Segatori, Elisa Serafini, Roberto Serio, Oscar Serra, Gianni Sinni, Claudia Soffritti, Carlo Antonio Solimene, Catia Sonetti, Gigi Sordi, Simone Sormani, Samuele Sottoriva, Stefano Spina, Valdo Spini, Ugo Sposetti, Mario Staderini, Gregorio Staglianò, Anna Starita, Luigina Staunovo Polacco, Roberto Stefanazzi, Lorenzo Stella, Leo Stilo, Francesco Storace, Nicola Storto, Ivan Tagliaferri, Tiziano Tanari, Mario Tassone, Roland Tedesco, Edoardo Telatin, Luca Tentoni, Antonio Tolone, Mauro Torresi, Luigi Torriani, Alvaro Tortoioli, Giuseppe Toscano, David Tozzo, Roberto Traversa, Marco Trevisan, Ciro Trotta, Lara Trucco, Fabio Tucci, Andrea Turco, Maria Turco, Maurizio Turco, Massimo Turella, Sauro Turroni, Mauro Vaiani, Silvia Vallisneri, Marco Valtriani, Milhouse Van Houten, Max Vassura, Margherita Vattaneo, Alessio VernettiEnrico Veronese, Fiodor Verzola, Michele Viganò, Lucia Visca, Ettore Vitale, Sara Zambotti, Pierantonio Zanettin, Camllla Zanola, Maria Carmen Zito, Mirella Zoppi, Roberto Zuffellato, Federico Zuliani, Piotr Zygulski. 

In chiusura, un tributo a chi ha disegnato Tutta la città insieme (Venezia), da cui è stato tratto il simbolo di quest'anno.

mercoledì 30 dicembre 2020

Le istruzioni di Manzella per ripensare l'Assemblea di domani, "tuttavia"

Ma, in fondo, cosa sarebbero i #drogatidipolitica senza il Parlamento, anzi, senza l'assemblea? Privi del luogo (fisico, ideale e immateriale) più legato alle elezioni, alle loro regole e ai soggetti che le animano, perderebbero il maggior motivo di interesse per la politica: la rappresentazione della complessità, a volte chiamata "articolazione" o in altri modi che comunichino l'idea di un mondo composito (e non difficile, per loro non lo è). Chi appartiene al girone dei #drogatidipolitica ama dunque realmente l'assemblea: sa che un'aula parlamentare - o di ogni altro organo assembleare elettivo - permette di dare conto in modo più o meno fedele della varietà di posizioni tra coloro che votano, dei mutamenti nella società che si trasmettono in un emiciclo e perfino della vita (e della scomparsa) di soggetti politici che, nati in quelle aule, sperano di trovare seguito anche tra chi dovrebbe votarli o iscriversi.  
Chi segue questo sito apprezzerà allora un recentissimo volume piccolo ma prezioso, che raccoglie sguardi attenti al passato e sfide realistiche per il futuro (assai vicino, specie dopo il taglio dei parlamentari). L'autore di Elogio dell'assemblea, tuttavia (pubblicato dall'editore modenese Mucchi, 77 pagine, 8 euro) è Andrea Manzella, una delle figure che senza dubbi conoscono meglio l'istituzione parlamentare, nei suoi numerosi pregi e difetti. Consigliere parlamentare della Camera dal 1961 al 1980, ha seguito decisamente da vicino la genesi del regolamento del 1971 (quello tuttora vigente, pur modificato nel corso del tempo); in seguito è stato a lungo impegnato come consigliere giuridico, segretario generale della Presidenza del Consiglio, parlamentare europeo (1994-1999) e senatore (1999-2008). Dall'inizio degli anni '70 ha insegnato in vari atenei diritto costituzionale e parlamentare, disciplina per la quale ha scritto un apprezzato manuale (edito da Laterza e pubblicato in tre edizioni, l'ultima nel 2003); dal 1995, infine, è alla guida del 
Centro di studi sul Parlamento dell’Università Luiss di Roma.
Nella sua "piccola conferenza", Manzella mette in luce il valore che l'istituto assembleare ha nella storia dell'intera umanità e non solo delle istituzioni: per lo studioso l'assemblea è "la 'forma' scelta dai più diversi insiemi sociali nel pianeta per la tutela collettiva della loro stessa sopravvivenza individuale e per il modo di decidere più giusto ed efficace". Non paia esagerata quest'affermazione: sono molte le testimonianze storiche di società più o meno ampie che hanno scelto di organizzarsi dandosi una qualche forma di assemblea per darsi regole vincolanti per tutti e ciò non può apparire come frutto del caso. 

Un'esigenza unitaria e identitaria 

Per Manzella è risultato chiaro, nel corso dei secoli, che "solo l'assemblea comune consente di salvaguardare in maniera eguale la primordiale sfera di autonomia individuale dalle paure più incombenti". Paure, insicurezze, bisogni e preoccupazioni delle singole persone, che diventano di tutti (o per lo meno di molti), per cui diventa importante affrontarle insieme. In assemblea, dunque, ci si ritrova per "conseguire e mantenere l'unità della società di base": una declinazione della massima e pluribus unum, che in seguito avrebbe caratterizzato anche la nascita e lo sviluppo delle assemblee parlamentari
Questa logica, dunque, valeva anche quando non c'erano i parlamenti (con relativi regolamenti), né esistevano partiti, statuti, simboli, liste e gruppi; eppure tutto ciò sembra essere la logica conseguenza delle dinamiche che caratterizzano di norma le società. Se infatti ognuna di queste è un "organismo composto di autonomie soggettive, ciascuna delle quali ha una sua sfera indefinita di espansione e di violenza", nota Manzella che "solo nell'assemblea si è identificato l'antidoto per disinnescare la violenza e bilanciare le rispettive tendenze a espandersi", cercando dunque un modo per un'azione comune, concertata. Quella decisione avviene secondo regole che la stessa assemblea si dà, per disinnescare i conflitti e bilanciare le varie istanze, ma quelle regole riescono a fare di più: rendendo più omogenei i soggetti che compongono l'assemblea, di fatto creano un'identità e lo fanno senza sosta (anche se occorre la "collaborazione" dei componenti stessi dell'assemblea). Non a caso l'autore parla di "un continuo processo di integrazione", che si coniuga agli sforzi volti a tutelare i diritti dei singoli e perseguire gli obiettivi comuni: secondo la sua lucida ricostruzione, solo l'assemblea - qualunque nome abbia avuto - è stata ed è capace di trasformare una "mera aggregazione di gruppo" in "un soggetto collettivo che agisce unitariamente per finalità comuni" (o almeno dovrebbe), divenendo così contemporaneamente "popolo" (come insieme di soggetti e istanze) e "comunità" (con obiettivi condivisi).

Rappresentatività e rappresentanza: partiti, gruppi, vincoli (e simboli) 

In questo contesto diventa fondamentale il rapporto esistente tra la rappresentatività di un'assemblea (cioè la capacità di rispecchiare, al suo interno, il pluralismo del gruppo che l'ha fatta nascere) e la rappresentanza (vale a dire la capacità di quell'organo di agire come "interprete della volontà del gruppo sociale di riferimento"). Un'assemblea, anche non parlamentare, non può riuscire davvero a interpretare la volontà di un gruppo (e ad agire di conseguenza) se non "somiglia" a quest'ultimo nella composizione; d'altra parte, la semplice "somiglianza" senza il momento successivo - dunque la lettura della volontà collettiva e la sua traduzione in azioni - sarebbe per Manzella "narcisismo sociale senza scopo". 
Se si considera questo rapporto reciproco, si può concordare in pieno con l'autore quando scrive che "la rappresentatività è un valore attivo che 'convalida' la rappresentanza, attraverso un confronto continuo con l'inorganica ma ben influente opinione pubblica". Per questo, la rappresentatività non può riguardare solo il momento in cui l'organo nasce, quando se ne determinano i componenti in base alle norme elettorali: l'assemblea deve essere sempre rappresentativa, perché il rapporto rappresentatività-rappresentanza continui a essere alimentato e dia frutti. Da questa considerazione si potrebbero trarre conclusioni diverse, fino a pensare che la composizione dell'aula deve per forza rispecchiare in tutto le proporzioni delle forze politiche all'atto delle elezioni o che, peggio, debba sempre essere immagine dell'assetto politico della società, mutando al variare di questo. Manzella sente di dover smentire subito che per avere un'assemblea rappresentativa questa debba sempre consistere in una "mera riproduzione su minore scala del materiale sociale sottostante": alcuni aggiustamenti sono inevitabili (come gli arrotondamenti dei seggi spettanti alle liste), altri sono frutto di una scelta, ma sono comunque accettabili se sono volti a perseguire "la stessa efficienza dello strumento assembleare". Ha chiarito questo la Corte costituzionale, nella sentenza n. 239/2018 (con cui non ha ritenuto incostituzionale la soglia del 4% per le elezioni europee), sebbene in passato - in particolare a partire dalla sentenza n. 1/2014 sulla "legge Calderoli" - avesse già richiamato il principio di uguaglianza del voto e la necessità di non distanziare troppo la composizione delle Camere dalla volontà espressa dal corpo elettorale. 
L'autore nota però che, se l'assemblea diventa di tutti ("proprio perché è qualcosa di separato dalla volontà di ognuno"), il distacco dai particolarismi che l'hanno prodotta ha come effetto la libertà dell'assemblea stessa, sotto vari profili: in particolare, ciascuna persona eletta è libera, ma questa libertà non va (tanto) a suo vantaggio, perché serve a tutelare proprio la libertà dell'organo, concorre dunque a un fine più grande. Alla luce del medesimo fine, tra l'altro, si può leggere il divieto di mandato imperativo (previsto, per il Parlamento italiano, dall'art. 67 Cost.): ciascun membro dell'assemblea viene sciolto da "obblighi elettorali", in compenso è vincolato a "una rappresentanza unitaria dell'intera comunità", fatta non solo di presente, ma anche di storia e di "attese di futuro".
Quel vincolo in effetti è più impegnativo di quello nascente dalle elezioni o dall'appartenenza a un partito, ma è probabile che gli occhi della maggior parte delle persone - e degli stessi #drogatidipolitica - si concentrino sui gruppi parlamentari e consiliari, nonché sulla loro evoluzione. Manzella nota che l'organizzazione in gruppi di un'assemblea, a partire da quella parlamentare, "risponde, ancor prima che ad esigenze di funzionalità, a questa necessità di 'verità' della rappresentazione": non c'è automatismo nella nascita dei gruppi o nell'adesione a questi (in nome della libertà dell'assemblea e dei suoi stessi componenti), ma i gruppi sono necessari, perché "la società non è piatta" e non può esserlo l'assemblea che vorrebbe rappresentarla. Alla base dell'articolazione dell'assemblea, dunque, si individuano altre "esigenze di efficacia dei meccanismi decisionali" dell'organo: ci si raccoglie in gruppi per riconoscersi e distinguersi, per darsi dei tempi, perché le cariche non finiscano tutte dalla stessa parte e così via. Di certo oggi, più che all'esistenza dei gruppi, si guarda - spesso non con occhio benevolo - ai "movimenti" di persone tra essi, con il noto fenomeno dei "cambi di casacca" (o, in linguaggio tecnico, del "transfughismo"). Manzella precisa che gli strumenti per tentare di limitarlo paiono inconciliabili "con la natura stessa dell'assemblea e del libero mandato dei suoi componenti", pur ammettendo che ciò può lasciare spazio tanto a "opportunismi individuali" quanto a dissidi politici, alla base di secessioni e scissioni. 
L'autore non può certo evitare, a questo punto, un riferimento a due fenomeni ben noti in Italia - e monitorati con costanza dai veri #drogatidipolitica - specie dalla XII legislatura e ancor più dalla successiva: la lievitazione del "gruppo misto", per l'adesione di eletti appartenenti a partiti che non potevano costituire o di transfughi bisognosi di una "decantazione" prima di approdare in altri gruppi, e il sorgere di nuovi partiti "che nascono per scissioni di gruppi in parlamento in vista di un incerto trapianto nella società elettorale" (un fenomeno che "sembrava relegato alle vicende parlamentari inglesi dell'800"). Se tutto ciò porta i segni della patologia (che peraltro attraggono terribilmente chi studia la materia), è anche vero che il rapporto reciproco e vivificante tra rappresentazione e rappresentanza dovrebbe portare a non stigmatizzare la nascita di gruppi parlamentari (e persino di componenti del gruppo misto alla Camera), ove corrispondano davvero a soggetti politici esistenti nella società, magari nati in corso di legislatura ma con un certo numero di iscritti. A tal proposito, sembra essenziale che non vi siano soltanto un atto costitutivo dell'associazione/partito, uno statuto, un simbolo e un gruppo di aderenti-fondatori (che non di rado sono pure dirigenti del soggetto politico), ma che il partito "esista in concreto" e possa dimostrarlo: in questo modo, forse, cesserebbe la tentazione di vedere il partito come strumento "tecnico" per ottenere un risultato atteso ed esso ritornerebbe a essere un'articolazione della società che merita - ove dimostri di avere un certo consenso - di essere rappresentato nell'assemblea.
Assicurare la rappresentanza è qualcosa di più complesso, oltre che di logicamente "successivo" rispetto alla rappresentazione: ricorda Manzella che la rappresentanza si traduce "nella espressione di sintesi delle differenze sociali, nella de-cifratura delle divergenti opinioni, nella loro finale con-fusione per una decisione unitaria". Una decisione che prende le mosse ovviamente dal risultato elettorale, ma è alimentata anche dalla "permanente pressione sull’assemblea di comunità animate dalla spinta progressiva ad acquisizioni di eguaglianza". Naturalmente nella "decisione unitaria" rientra anche quella sulla fiducia da concedere al governo, ma deve trattarsi pur sempre di una scelta dell'assemblea: come la Corte costituzionale ha ricordato (soprattutto nelle sentenze del 2014 e del 2017 sulla legge elettorale politica), il sistema elettorale deve badare innanzitutto ad assicurare la rappresentatività dell'assemblea parlamentare che forma, non la governabilità (e non può essere il sistema elettorale a predeterminare una maggioranza di governo in una forma di governo parlamentare). Naturalmente l'autore riconosce che proprio nell'assemblea hanno piena cittadinanza le aspettative del "governo in parlamento" (e, dunque, della sua maggioranza), circa l'attuazione del proprio programma; si tratta però di assicurare un delicato equilibrio delicato tra queste e le aspettative dell'opposizione, perché essa "possa esprimersi in parlamento come vera forza di governo alternativo e non costretta al ruolo di ostruzione o di 'imprecazione', ridotta al c.d. diritto di tribuna"

Due Camere, un'Assemblea (non sovrana)

Un'altra sezione della "piccola conferenza" riguarda il bicameralismo e la sua compatibilità con il fine unitario e di "sintesi" dell'assemblea di cui si è detto fin qui. Per Manzella la "spinta all'uguaglianza" e all'integrazione che caratterizza l'assemblea potrebbe essere compromessa dalla moltiplicazione (o anche solo dal raddoppio) di quelle sedi: ciò non dovrebbe riguardare però l'Italia, formalmente bicamerale ma caratterizzata da quello che l'autore chiama "monocameralismo 'non detto'", con l'assetto di "Due Camere, un Parlamento" (per riprendere il titolo di un volume curato dallo stesso Manzella con Franco Bassanini nel 2017). Ciò emergerebbe già dalla scelta, fatta da un'altra Assemblea (la Costituente), di impiegare nella Carta il termine "Parlamento" per indicare le due Camere: allora non si spiegarono le ragioni dell'uso di una parola assente nello Statuto albertino, ma l'uso fattone nel testo costituzionale ha attribuito a quel Parlamento un ruolo chiave, come espressione di "un'unità funzionale" e "complessa", ben di più della semplice somma di "due entità distinte". 
Il Parlamento appare davvero un soggetto unitario quando si riunisce in seduta comune (per eleggere, sentire giurare o mettere in stato di accusa il Presidente della Repubblica, nonché per eleggere i giudici costituzionali e i componenti "laici" del Csm di propria spettanza), come "garante delle funzioni di unità nazionale degli altri organi costituzionali". Anche in sede legislativa, però, la Costituzione delinea un processo altrettanto unitario (con la funzione legislativa che dev'essere esercitata "collettivamente dalle due Camere": art. 70 Cost.): lo dimostrerebbero anche le "fasi procedurali intercamerali" che caratterizzando le delicate decisioni in materia di bilancio. Proprio queste, negli ultimi tre anni, hanno subito pesanti stress e forzature (con uno dei due rami del Parlamento che di fatto "non tocca palla", finendo per creare una situazione non troppo distante dal "monocameralismo temperato", almeno in quest'ambito); è altrettanto noto però che la Corte costituzionale, nel 2019 come nel 2020, pur avendo riconosciuto l'esistenza di deformazioni e dilatazioni nel concreto percorso parlamentare, non ha ravvisato "un irragionevole squilibrio fra le esigenze in gioco nelle procedure parlamentari e, quindi, un vulnus delle attribuzioni dei parlamentari grave e manifesto". Il Parlamento, dunque, risulta "parte indispensabile dei procedimenti che garantiscono il sistema nella sua integrità": a questi partecipa ciascun membro delle Camere, quale rappresentante della Nazione ex art. 67 Cost.
Non va dimenticato che chi scrisse la Carta volle approntare una "garanzia contro il pericolo dell''assolutismo' parlamentare", immaginando reciproci contropoteri delle due Camere nutriti dalle differenze tra esse previste in Costituzione: queste però sono state in parte cancellate (la diversa durata delle due Camere) o rese irrilevanti grazie ad altre norme (è il caso dell'elezione a base regionale del Senato, che le leggi elettorali non hanno valorizzato o, come quella del 2005, l'hanno fatto in un modo sbagliato). In realtà, secondo Manzella, le preoccupazioni di madri e padri costituenti miravano essenzialmente a garantire un "giusto procedimento" dell'istituzione parlamentare: le attribuzioni di ciascuna Camera devono dunque considerarsi fasi interne di un unico procedimento
La delicata funzione di equilibrio che quest'Assemblea riveste, peraltro, non deve far cadere nella tentazione di affermare, come pure spesso si legge e si sente, che "il Parlamento è sovrano", nel senso di sovraordinato in una scala gerarchica. "Sovrano - nota Manzella - è l'ordine complessivo che il popolo attraverso la decisione costituente si è dato": certamente in quell'ordine l'assemblea rappresenta "l'indispensabile strumento di avvio e di mantenimento". Un mantenimento che il Parlamento deve preoccuparsi di esercitare, mantenendo l'indirizzo politico di sistema (vale a dire "la strategia sociale e geopolitica" del paese) all'interno del "triangolo normativo" delimitato dalla forma repubblicana (non revisionabile, ex art. 139 Cost.), dall'apertura alla società internazionale (art. 11 Cost.) e dalla tensione all'uguaglianza sostanziale dei cittadini (art. 3, comma 2 Cost.): compito dell'assemblea è assicurare il più possibile un equilibrio dinamico, componendo le varie spinte provenienti dal corpo sociale.

L'Assemblea e le sue regole

In ciò che si è visto finora, un ruolo delicatissimo e irrinunciabile spetta alle "regole delI'Assemblea", cioè ai regolamenti delle Camere: tocca anche a questi garantire un equilibrio "nella vita dell'assemblea tra le ragioni dei 'più' e quelle dei 'meno'", oltre che "tra le regole che tutelano la sfera individuale di ciascun membro e quelle che salvaguardano la complessiva efficienza assembleare ad adottare decisioni efficaci" (va letto anche così il monito della Consulta - nell'ordinanza n. 60/2020 - a non creare, anche attraverso norme regolamentari e prassi, "un irragionevole squilibrio fra le esigenze in gioco nelle procedure parlamentari"). Può dirsi che il dialogo e il confronto in condizioni di ragionevole parità sono elementi costitutivi e necessari dell'assemblea (addirittura prima della sua costituzione: Manzella inquadra così la campagna elettorale in vista della formazione dell'organo). Non c'è dunque decisione assembleare senza deliberazione (e discussione), come senza le "regole dell'Assemblea" - ora scritte, ora praticate e consolidate - non può esservi assemblea. 
Il ruolo così delicato di quelle regole spiega anche perché i giudici possano solo prendere atto dell'esistenza delle norme del diritto parlamentare, senza poterle giudicare o ritenere "ingiuste"Se però la situazione dovesse davvero degenerare in una condizione in cui "i 'più', rompendo la parità nel dialogo, privano i 'meno' dei diritti loro spettanti in virtù dell'intarsio tra norme della costituzione e norme regolamentari", i giudici potrebbero intervenire, perché sarebbe prevalente l'interesse sociale a riportare "nella norma" il dialogo e il procedimento assembleare siano "rinormalizzati". La funzione unificante dell'assemblea, infatti, non annulla la natura dialettica del suo potere, frutto di un continuo confronto interno: se una parte di quel confronto ritiene che le regole del contraddittorio siano state alterate dalla maggioranza, ha titolo per agire a tutela di propri diritti, ma sempre e comunque nell'assemblea e avendo come fine mediato il buon funzionamento dell'assemblea stessa (l'autore nota incidentalmente che in Italia, a differenza di vari ordinamenti democratici, non è prevista alcuna legittimazione formale di una parte dell'assemblea - opposizione, gruppo, frazione dell'assemblea - ad agire contro lamentate lesioni dei propri diritti, ma la Corte costituzionale ha ritenuto di poter riconoscere detta legittimazione ai singoli parlamentari).

Le sfide della partecipazione e della contemporaneità

Certo è che, perché la funzione unificante sia completa, occorrerebbe un contatto reale del Parlamento - e, in generale, dell'assemblea - con "il mondo intorno", ciò che Manzella chiama agorà. Non è solo una questione, pur essenziale, di conoscibilità degli atti e degli stessi contenuti delle sedute (per cui, per fortuna, si è passati dalla pubblicità garantita essenzialmente dalla pubblicazione degli atti parlamentari e dalle trasmissioni - a lungo "non ufficiali", ma fondamentali - di Radio Radicale alla diffusione, da parte delle stesse Camere attraverso siti e account ufficiali, di gran parte dei documenti rilevanti e delle stesse immagini di seduta): occorrerebbe che il Parlamento si mettesse nelle condizioni di ascoltare la società, conoscerne le frammentazioni e adoperarsi per ridurle, riportando "dentro l'ordinamento democratico flussi, funzioni, conflitti, capitali sociali che stentano ad entrare dentro la logica rappresentativa, territori della vita quotidiana ignoti alla mediazione politica". Solo così, probabilmente, l'assemblea - e in particolare il Parlamento - potrebbe essere in grado di esercitare la teaching function teorizzata da Walter Bagehot (e invocata da Manzella), volta a "modificare in meglio" la società al centro della quale è stata posta, insegnando all'unico corpo elettorale che l'ha eletta "ciò che non sa": ciò a partire dalla "moralità del discorso a più voci e delle decisioni legittimate: dalla partecipazione attiva delle minoranze prima ancora che dal consenso ragionato di una maggioranza". 
In questo contesto, l'Assemblea avrà sempre di più il compito e la necessità di "intercettare i processi politici in atto e di comporli in 'unità costituzionale'": è chiamata a soddisfare la "necessità democratica di arricchire, con la partecipazione delle comunità politiche minori, la rappresentatività 'nazionale' del processo di decisione parlamentare" (non mediando tra gli interessi territoriali divergenti, ma trasformandoli in interessi nazionali), senza trascurare le istanze dei soggetti collettivi portatori di interessi (soprattutto grazie all'impegno delle singole persone elette). Allo stesso tempo, Manzella nota che l'Assemblea - in quanto "emanazione diretta del potere popolare e, insieme, potere pubblico costituito" - ha pure il compito di garantire "la stabilità dei confini dei plurimi poteri dell’ordinamento", poteri che non devono sfuggire al controllo popolare (poiché "la sovranità appartiene al popolo"). 
Il Parlamento è anche chiamato a controllare le istituzioni di governo, ora soprattutto nelle forme "di controllo-indirizzo e controllo-influenza sempre più condizionate nei tempi e nell'intensità dal peso dell'opinione pubblica". L'assemblea si trova innanzitutto a dover controllare, soprattutto con emendamenti e "pareri normativi" le varie iniziative normative dell'esecutivo: questo non di rado cerca di aggirare il controllo con i maxi-emendamenti assistiti dalla questione di fiducia, ma in una situazione di emergenza come l'attuale - con l'accumulo di vari atti normativi del governo a limitazione delle libertà - sembra assai diffuso tra gli ordinamenti "un rilevante problema di qualità democratica" (e secondo Manzella le corti costituzionali farebbero bene a chiarire che "quell'ingombrante precedente di massa 'non fa precedente' nel normale ordine costituzionale); non va poi sottovalutato il ruolo di garanzia di alcune articolazioni parlamentari (come il Comitato per la legislazione o le commissioni competenti) quando cercano di intervenire a favore della "leggibilità del diritto" o della sostenibilità della finanza pubblica (impiegando rapporti di istituzioni indipendenti).
Di certo i tempi attuali richiedono nuovi strumenti di azione e nuove dimensioni territoriali per esercitarli, a partire dalla cooperazione tra assemblee, in particolare tra Parlamenti degli Stati dell'Unione europea, sia per armonizzare e orientare l'azione intergovernativa, sia per "stabilire legami di senso, politici e culturali, per la diretta connessione con la base sociale". 

"Tuttavia": istruzioni per un futuro molto vicino

Il fatto stesso che quei Parlamenti abbiano continuato a operare anche durante la pandemia (pur con adattamenti, limiti e soluzioni più o meno condivise) è stato per Manzella "una prova di resistenza della loro necessità come garanzia": un baluardo necessario perché l'eccezione dei poteri governativi restasse tale nel sistema costituzionale. Non per questo, però, sembra opportuno ignorare i limiti che il sistema parlamentare può avere e mostrare
Ne erano consapevoli già i costituenti che, nella Seconda Sottocommissione, il 5 settembre 1946 avevano approvato (22 voti a favore, 6 astensioni) il noto ordine del giorno presentato il giorno prima da Tomaso Perassi (Pri): la Sottocommissione, ritenute inidonee le forme di governo presidenziali e direttoriali, si pronunciò "per l'adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell'azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo". L'ordine del giorno sembrava tenere conto degli avvertimenti che il 3 settembre, davanti al medesimo organo, aveva proposto il costituzionalista Costantino Mortati (eletto per la Democrazia cristiana): "Dove non si hanno chiare designazioni da parte del corpo elettorale, la formazione del Governo è frutto di un complesso di accordi fra le varie correnti che si sono manifestate nelle elezioni e i Governi sono, per lo più, di coalizione e risentono di questa debolezza alla base; donde il danno della instabilità dell'indirizzo politico del Governo e la mutabilità dei Ministeri". Definì meglio le "degenerazioni del parlamentarismo" - sempre il 5 settembre - un altro costituzionalista membro della Sottocommissione, Egidio Tosato (Dc): si doveva evitare che il governo parlamentare degenerasse "in governo di assemblea, cioè, in concreto, in governo dei comitati direttivi dei partiti dominanti" e il risultato si poteva raggiungere regolamentando i voti di sfiducia e fissando "un periodo minimo di vita al governo che abbia ottenuto l'approvazione delle Camere" (soluzioni ritenute poco praticabili in Italia), oppure con "una specie di 'contaminazione' del governo presidenziale con il governo parlamentare [...] nel senso di un potenziamento della figura del Presidente del Consiglio, il quale fosse espressione della volontà della Camera, ma avesse la effettiva possibilità di governare". 
Non mancarono altre proposte, come quella di Giovanni Porzio (Unione democratica nazionale), convinto che il problema della stabilità si sarebbe risolto evitando il sistema proporzionale: "Quando ci sarà un Governo di maggioranza, quando cioè il corpo elettorale sarà chiamato a discutere su un programma di governo e su questo programma si sarà costituita la maggioranza, si avrà la forza, l'autorità ed il prestigio del Capo del Governo e si avrà la stabilità del Governo. Quando invece ci si trova di fronte ad una situazione elettoralistica nella quale si improvvisano i partiti, non si avrà mai una stabilità di governo e le discussioni saranno inutili perché non daranno mai la stabilità". Porzio aveva in mente quanto aveva vissuto nel primo dopoguerra: "Quando la proporzionale fu adottata, bastò la più piccola questione, per esempio la nomina di un segretario della Camera, perché si potesse dire che il Governo era stato battuto. E fu così che l'Italia ebbe Mussolini". Intervenendo di nuovo sul punto, Mortati respinse l'idea di votare con un sistema uninominale ("bisognerà che si abitui il popolo a prendere decisioni politiche, ed a questo scopo il regime elettorale proporzionalistico è quello meglio rispondente ad abituare il popolo non solo alla migliore scelta degli uomini [...] ma alla valutazione e scelta dei programmi. Il regine uninominale [...], in un Paese come l'Italia che ha bisogno di educazione politica, il sistema uninominale peggiorerebbe l'indisciplina dei partiti e la mobilità, la fluidità delle situazioni politiche, renderebbe più frequenti le crisi parlamentari") ma riconobbe che la stabilità si sarebbe potuta perseguire fissando la durata del governo e consentendo eccezionalmente al Capo dello Stato di sciogliere la Camera in caso di "irrimediabile e prolungato dissidio fra i poteri". 
Tornando ad Andrea Manzella, egli sottolinea che se alla Costituente si accettò comunque "il compromesso sul parlamentarismo partitico" a patto che in seguito - alla Costituente o più in là - si provvedesse a correggere quell'assetto dando attenzione alla stabilità dell'azione di governo, di fatto "sono invece seguiti quasi 80 anni di varie omissioni a quel 'tuttavia'" che allora aveva sancito il compromesso e l'impegno. Per il costituzionalista, però, dopo quelle occasioni perse, se ne presenta una ora, irripetibile per l'eccezionalità delle circostanze, tra le quali rientra anche - non va dimenticato - la recente riforma costituzionale con cui si è ridotto il numero dei parlamentari e che costringerà necessariamente a rivedere i regolamenti parlamentari per adattarli al nuovo assetto dell'assemblea. Quel "tuttavia", scritto da Perassi e votato dai costituenti, è stato volutamente ripreso da Manzella nel titolo del suo intervento, per confermare il valore dell'Assemblea e della sua centralità, senza però nascondere i profili di criticità di quell'istituto e riprendendo l'esigenza di intervenire per rimediare a quelle storture e rispondere a nuove esigenze nel frattempo emerse. Tutto questo, ovviamente, per valorizzare l'istituzione assembleare-parlamentare e il suo ruolo di "cerniera tra vitalità e necessità regolatoria della società in movimento".
Da un lato, per l'autore si dovrebbe intervenire sulla Costituzione "per consentire una rappresentatività parlamentare non frammentata in due tronconi, senza alcuna corrispondenza con reali necessità sociali", temperando poi la previsione di un'unica Camera attraverso la costituzionalizzazione di alcune "fasi procedurali rivelatesi ribelli alla disciplina interna", per evitare nuove "prassi gravemente distorsive (e che la Corte costituzionale ormai mal sopporta)". Si potrebbe intanto intervenire sui regolamenti parlamentari per "unificare procedure che oggi si duplicano in maniera diseconomica per la comunità": Manzella propone di istituire "commissioni bicamerali guidate da personalità parlamentari di intesa bipartisan" perché controllino gli investimenti, la semplificazione amministrativa, i nodi e i tempi dell’intervento pubblico nell’economia, individuati come "grandi nodi del 'contratto sociale'" su cui confrontarsi con il governo, magari in una situazione di nuova conventio ad excludendum delle forze avverse al sistema (che comprende pure la dimensione europea).  
Sempre sul piano strutturale, i parlamenti dovrebbero elaborare - anche se Manzella dice "inventare", quasi a suggerire che nulla di ciò che ora è in uso sembrerebbe adatto allo scopo - "procedure che siano 'contemporanee' alla fonte della regolazione" (quella governativa), bilanciando l'esigenza di tempi contenuti di discussione e adozione/ratifica delle norme con il rispetto degli spazi di cui il confronto e il dialogo hanno incomprimibile bisogno. Temperare efficienza/efficacia e approfondimento democratico, per difficile che sia, dovrà essere possibile e potrebbero venire in aiuto "procedure digitali" che permettessero un controllo normativo anticipato "alla fonte". Manzella richiama pure la necessità di un lavoro delle Commissioni parlamentari "in stretta corrispondenza allo sviluppo dei programmi di investimento [...] necessari per la Ricostruzione", superando gli attuali "confinamenti settoriali" ma anche aprendosi - lo si ripete - all'ascolto del "mondo intorno".
L'ultimo punto, peraltro, richiede un profondo impegno di ciascun parlamentare, grazie all'aiuto della tecnologia. Non significa affatto cedere alla democrazia diretta a danno dell'assemblea (cosa che finirebbe per cancellare il valore dell'individuo come cittadino), né tanto meno accantonare la presenza fisica in assemblea delle persone elette: Manzella rimarca - in modo meritorio e, visti i tempi, provvidenziale - che questa è "irrinunciabile per l'intersezione dei molteplici rapporti in cui la rappresentanza si verifica e vive, indispensabile nella fase del voto: personale e libero, quale non potrebbe essere da lontano". Significa invece dare valore, attraverso la partecipazione da remoto, ai "procedimenti conoscitivi" dei temi su cui si dibatterà in presenza, nonché - riprendendo un'osservazione fatta nel 2000 da Leopoldo Elia - alle competenze professionali e alle provenienze territoriali dei singoli eletti (che conterebbero di più se i parlamentari non fossero "paracadutati" in circoscrizioni che non conoscono direttamente, ma questa è un'altra storia...). In ogni caso, un sistema simile darebbe nuovo senso - e, ci si permette di aggiungere, nuova dignità - all'attività territoriale dei membri dell'assemblea, intendendo ciascuna e ciascuno di questi come "l'antenna del sistema parlamentare nel territorio e nello stesso tempo, il 'trasformatore' del capitale sociale della sua circoscrizione in risorsa nazionale, anche quando rechi con sé antagonismo e dissonanti fattori di crisi". 
Costerà fatica, ma sarà necessario, come sarà essenziale - e benissimo ha fatto Manzella a sottolineare quest'aspetto, che merita di essere sviluppato - affrontare "il problema del controllo pubblico sulle piattaforme informatiche, veri poteri privati che hanno però capacità di condizionamento radicale della sfera pubblica": toccherà ancora una volta al Parlamento "farsi carico di innestare quei sistemi di supremazia speciale, con esercizio privato di pubbliche funzioni, nel circuito democratico rappresentativo". Ciò peraltro potrebbe portare ad attribuire nuovi significati e nuove ricadute al requisito del "metodo democratico" fissato dall'art. 49 Cost. (tema molto caro a Manzella, che non si era mai arreso alla lettura riduttiva di quella disposizione praticata almeno nel primo mezzo secolo dell'Italia repubblicana, come si può tuttora notare nel commento, scritto per la Repubblica nel 1995, sui contrasti interni al Ppi, finiti in tribunale ma trattati dal giudice come "una vicenda meramente privata degli associati"). Si tratta di cogliere l'occasione per aumentare la partecipazione, da intendere come possibilità di conoscere (requisito irrinunciabile per un concorso attivo all'organizzazione politica del Paese ex art. 3 Cost.) e come contributo alla consapevolezza delle questioni in gioco, senza rinunciare a un grammo della funzione unificante e di integrazione dell'assemblea. Anche grazie a quel "tuttavia" che, a distanza di oltre settant'anni, meritava di trovare la giusta considerazione. 

domenica 27 dicembre 2020

I numeri del voto regionale (e non solo): le letture di Luca Tentoni

La scienza che si occupa di studiare le elezioni, come branca della scienza politica, è conosciuta tra le studiose e gli studiosi con il nome tecnico di psefologia. La prima parte di questa parola, probabilmente inconsueta per la maggior parte delle persone, rimanda al termine greco psêphos, che indica il "ciottolo", il "sassolino" usato ad Atene per votare (in seguito avrebbe preso forme particolari, anche diverse a seconda del contenuto del voto, per esempio sulla condanna o sull'assoluzione): l'identificazione era stata tale da far associare quel nome all'atto stesso del voto o all'idea della procedura elettorale. 
Proprio l'etimologia di questo termine inconsueto, dal momento che i "ciottoli" dovevano essere contati, ricorda una volta di più che le elezioni sono fatte innanzitutto di numeri: lungi dall'essere freddi e aridi, però, questi meritano di essere letti e analizzati con attenzione, collocati nel loro contesto storico, sociale e politico (da ricostruire con cura) e considerati per ciò che possono comunicare, spiegare e lasciar intuire su coloro che hanno espresso quei voti, sul loro comportamento e sulle loro ragioni. Si tratta, insomma, di "far parlare" i numeri, cosa che in realtà comporta munirsi di strumenti per comprendere le informazioni che i numeri possono trasmettere e per riuscire a diffondere quelle stesse informazioni a ogni persona interessata.
Considerando tutto questo, è interessante sapere che da pochissime settimane il Mulino ha pubblicato Le elezioni regionali in Italia. Il comportamento elettorale nelle regioni a statuto ordinario (1970-2020), ultimo libro scritto da Luca Tentoni, analista politico, a lungo giornalista ed editorialista per varie testate giornalistiche (incluso lo spazio online Mente politica): nel corso del suo lungo impegno ha autore di numerosi volumi e saggi su istituzioni, sistemi elettorali e comportamento politico degli italiani.

Tappe precedenti: dalle politiche nelle "capitali regionali"...

Lo stesso libro di cui si è detto poc'anzi, in effetti, rappresenta il capitolo conclusivo di un percorso "a trilogia" iniziato - per lettrici e lettori - nel 2018, con la pubblicazione (sempre per il Mulino) di Capitali regionali. Le elezioni politiche nei capoluoghi di regione (1946-2018). In questo cammino a tre tappe, infatti, Tentoni ha scelto di offrire e analizzare i dati relativi alle tre competizioni elettorali più rilevanti del paese (politiche, europee, regionali), rilevando le peculiarità di ogni consultazione, i mutamenti nelle scelte dell'elettorato, i fattori storici, sociali e territoriali che possono averli condizionati nel corso del tempo. Quel primo volume, in particolare, aveva osservato essenzialmente i numeri delle elezioni politiche (guardando però anche alle amministrative del 1946 e alla prima tornata referendaria, del 1974), prestando attenzione con uno sguardo diacronico al comportamento di elettrici ed elettori dei principali partiti nelle varie aree territoriali (individuate generalmente come Nord-Ovest, Nord-Est, Centro-Nord già delle "regioni rosse", Roma-Lazio, Sud ampliato, Isole) e tracciando un utile bilancio della "prima Repubblica" (fino al voto del 1992) e di una "seconda Repubblica allargata" (così verrebbe da dire, essendo incerta agli occhi di chi scrive ora la qualificazione delle ultime legislature). 
L'autore, peraltro, aveva volutamente scelto come proprio punto di osservazione le "capitali regionali", ossia i capoluoghi di regione e di provincia autonoma, mettendone in luce le particolarità fin dal capitolo introduttivo (utilissimo per chi è interessato alla psefologia, al pari della nutrita bibliografia finale): quelle città, infatti, a volte piuttosto omogenee rispetto al contesto territoriale regionale (come nelle regioni "già rosse") e altre volte piuttosto dissimili (Tentoni porta gli esempi di Milano e Venezia), presentano alcune caratteristiche ricorrenti. Per prima cosa, soprattutto nel periodo che va fino alla metà degli anni '70, le "capitali regionali" acquisiscono un peso rilevante nel panorama elettorale nazionale grazie alle migrazioni interne (anche se dagli anni '80 esso si è un po' ridimensionato). Secondariamente, nel periodo della "prima Repubblica" il voto nei capoluoghi di regione è risultato meno concentrato sui primi due o tre partiti rispetto alle "periferie" e il numero effettivo di partiti partecipanti è sempre maggiore nei centri rispetto agli altri comuni, fino a far registrare una certa frammentazione del quadro politico; nella seconda Repubblica la tendenza è parsa inversa (tranne che alle elezioni del 2018), ma la concentrazione sui due principali soggetti elettorali (c.d. "indice di bipartitismo") nelle "capitali regionali" è comunque più bassa rispetto alla prima fase repubblicana italiana e il numero di partiti è di norma superiore rispetto ad allora. Questo ha fatto parlare Luca Tentoni di "mercato aperto" (o comunque più vasto) per i capoluoghi, interessati anche da rilevanti fenomeni di movimento elettorale da una consultazione all'altra, spesso più marcati o più "fattibili" che in periferia.
Ciò, dal punto di vista "simbolico" che inevitabilmente interessa chi frequenta questo sito, può tradursi in una scheda elettorale più affollata di contrassegni; quest'eventualità, tuttavia, non può che dipendere molto dalla conformazione del sistema elettorale (in particolare dal tipo di collegi e dal numero di circoscrizioni sul territorio regionale). Soprattutto, però, proprio la situazione più aperta, dinamica e meno monopolizzata dai partiti maggiori genera un maggior numero di simboli dotati di consenso percettibile e, magari, rappresentati in Parlamento; anche qui, però, questa seconda parte dell'affermazione è strettamente dipendente dalle regole scelte per trasformare i voti in seggi (dalla formula elettorale e dall'entità delle eventuali soglie di sbarramento). Tutto questo non può dipendere soltanto dalla maggiore quantità di elettrici ed elettori che si riscontra nelle "capitali regionali" e non negli altri comuni: questo non avrebbe alcuna influenza in sé sulle percentuali delle varie candidature. Un ruolo assolutamente rilevante in questi fenomeni, piuttosto, sembra spettare a un fattore qualitativo, legato alla composizione diversa e maggiormente varia dell'elettorato (comunque più ampio) nei capoluoghi: proprio la presenza di un maggior numero di istanze agevola una varietà più consistente di proposte elettorali e, in alcuni casi, rende più facile la rappresentanza anche alle forze "minori" più radicate o di maggior impatto.
Tutto ciò è stato illustrato elezione dopo elezione (prestando attenzione anche ai passaggi intermedi) e, soprattutto, con l'ausilio di un gran numero di tabelle e svariati grafici, mettendo a disposizione una grande mole di dati da leggere, accostare e considerare insieme.

... ai numeri delle europee

Il secondo volume del trittico di Tentoni, pubblicato dal Mulino nel 2019, era Le elezioni europee in Italia. Un percorso fra storia e dati (1979-2019). L'opera ha avuto il merito di riconoscere al voto per il Parlamento europeo la dignità che merita, a dispetto dei minori studi che l'hanno riguardato e dell'attenzione limitata (distorta in chiave nazionale) posta dai media, dalle forze politiche e pure dal corpo elettorale. 
La dottrina ha qualificato quelle consultazioni come "elezioni di second'ordine": l'etichetta richiama votazioni nelle quali il tasso di mobilitazione - e anche di affluenza - è minore rispetto a quello delle elezioni "di prim'ordine" come le politiche (benché i temi della propaganda, come detto, siano spesso di livello nazionale) e non di rado si creano le condizioni perché elettrici ed elettori penalizzino le forze di maggioranza, dando più consenso a quelle di opposizione, di protesta, neocostituite o legate a determinati raggruppamenti federativi europei. Proprio le minori ricadute del voto europeo sulla situazione politica interna, tuttavia, per alcuni studiosi spingerebbero elettori ed elettrici a un voto più "sincero", meno dettato dalla razionalità e dall'intento di orientare la politica nazionale: ciò non di rado ha posto le basi per risultati rilevanti di liste di scopo o monotematiche, di partiti estremi o addirittura antieuropei (non è un controsenso: esiste un contesto migliore per dare un segnale contro l'Europa-così-com'è?). Già queste sono ottime ragioni per approfondire le dinamiche e i numeri delle elezioni europee, con strumenti analoghi a quelli visti per le "capitali regionali"; di più, a volte proprio il voto per il Parlamento europeo è stato un banco di prova per esperimenti elettorali (anche di natura "simbolica") che in qualche caso hanno proseguito il loro cammino, mentre in altri si sono subito dissolti, dunque anche questo merita approfondimento.
Tentoni ha così messo in luce come il tasso di mobilità tra un'elezione europea e l'altra sia maggiore di quanto accada per le elezioni politiche, tanto per i numerosi rivolgimenti nazionali che possono avvenire nel corso di una legislatura europea, quanto per l'influenza che può giocare la presenza di forze politiche nuove, aggregazioni ad hoc e liste di scopo. Non si deve dimenticare, poi, che fino al 2004 si è favorita una certa frammentazione del quadro per la presenza di una legge elettorale proporzionale  priva di correttivi; l'introduzione, nel 2009, della soglia di sbarramento del 4% ha posto un significativo ostacolo all'entrata all'Europarlamento di forze politiche  di una certa consistenza, ma già rimaste escluse dalla rappresentanza nazionale, spingendo alla formazione di alleanze e cartelli elettorali.
Anche qui, in ogni elezione (ben inquadrata storicamente a livello nazionale ed europeo), si è analizzato il comportamento elettorale con riferimento alle forze politiche (o alle liste elettorali) più rilevanti: si è valutato il loro "peso" nelle "capitali regionali" e negli altri comuni guardando alle cinque circoscrizioni della legge elettorale e impiegando di nuovo le sei aree d'Italia individuate nel libro precedente, cercando sempre di dare ragione dei risultati riscontrati. 
Nelle analisi proposte da Tentoni acquista rilievo pure lo sguardo rivolto alle nuove forze politiche o agli esperimenti elettorali ad hoc destinati alle europee. Il primo anno interessante sembra essere il 1989: per l'autore ha peso l'8% di voti "conquistato da liste non presenti alle elezioni europee precedenti". Appaiono vincitrici la Federazione dei Verdi (Verdi Europa, col sole che ride) e i Verdi Arcobaleno (alla prima apparizione elettorale), nonché l'Alleanza Nord, evoluzione ampliata della Lega Lombarda (premiata rispetto alle elezioni politiche di due anni prima); non pareva buono invece il risultato degli Antiproibizionisti sulla droga, che pagavano di certo la scelta dei radicali di "disseminarsi" su quattro liste, ma almeno riuscivano a ottenere un seggio con questa lista (e uno con la lista Pli-Pri).
Saltando al 1999 - consultazione connotata dal "trionfo della frammentazione" e con una concentrazione di voti tra le due prime liste più contenuta - si è assistito all'affermazione di due soggetti nettamente europeisti: da una parte la Lista Pannella, che schierava il nome di Emma Bonino (già proposta come presidente della Repubblica) e aveva raccolto "un voto contingente per il cambiamento e il rinnovamento della politica [...], un messaggio ai poli lanciato da un elettorato d'opinione giovane e altamente scolarizzato", arrivando all'8,4% ma superando il 12% nel Nord-Ovest e nel Triveneto; dall'altra i Democratici, legati all'esperienza di Romano Prodi al governo (e in polemica con le evoluzioni del centrosinistra), capaci di cogliere il consenso del "movimento dei sindaci" (legato a varie anime di centrosinistra e non solo) ed "embrione di quello che potrebbe essere il nuovo Ulivo, dopo quello del '96" (sul punto si tornerà). Era apparso un insuccesso, invece, l'accordo tra Alleanza nazionale e il Patto Segni sotto le insegne dell'elefantino: "i cartelli elettorali [...] non hanno quasi mai successo" e il risultato era buono solo a Roma (23,2%).
La proliferazione di sigle e la frammentazione degli eletti italiani si confermano nel 2004: hanno partecipato 25 liste e 16 hanno ottenuto seggi (nel 1999 erano state 19 su 26). I partecipanti sarebbero però stati di più se non si fosse riscontrata una prima, diffusa tendenza all'aggregazione di forze ritenute simili. Valeva per chi aspirava a un ruolo chiave nel futuro politico italiano, come i tre partiti maggiori del centrosinistra (Ds, Margherita e Sdi, con l'apporto dei Repubblicani europei) raccolti in Uniti nell'Ulivo, il vero antecedente della riproposizione ulivista alle elezioni del 2006 (e tutto sommato con pochi voti persi per strada rispetto alla somma dei consensi precedenti, anzi preparando un rafforzamento della futura Unione); valeva anche per le forze minori, interessate non a superare uno sbarramento (non ancora previsto, ma è stata l'ultima volta) ma a ottenere un seggio in più o semplicemente un seggio. Hanno centrato l'obiettivo Alternativa sociale (Alessandra Mussolini ha ottenuto un seggio anche grazie agli apporti di Forza Nuova e del Fronte nazionale) e, in un certo senso, anche il tandem Di Pietro-Occhetto con la lista Italia dei valori - Società civile (non una semplice apertura del partito dominante nel simbolo - come l'Udeur ampliata a Mino Martinazzoli - esistendo un accordo tra l'Idv e il gruppo Riformatori per il nuovo Ulivo, peraltro finito in malo modo); niente da fare invece per il cartello Pri - Liberal Sgarbi (il "partito della bellezza") e per allargamenti ininfluenti, come quello del Patto dei liberaldemocratici di Segni che aveva accolto Carlo Scognamiglio. Tentoni nota poi la prima partecipazione del Movimento No Euro, promosso da Renzo Rabellino: con il suo 0,22%, esso "costituisce una piccola ma a suo modo significativa testimonianza di come il tema sia già presente - sia pure a livello molto marginale - nel dibattito politico italiano". 
Le ultime tre elezioni europee, soprattutto a causa della diminuzione dei seggi da distribuire e dell'introduzione dello sbarramento al 4%, hanno visto calare il numero di soggetti elettorali in campo (senza contare che un numero rilevante di questi, spesso frutto della "federazione" di più forze, è finito sulla scheda solo grazie all'esenzione dalla raccolta firme, a volte ottenuta con il collegamento a gruppi stranieri rappresentati al Parlamento europeo, senza godere di alcun eletto uscente) e ancora di più il numero delle forze politiche che hanno ottenuto europarlamentari; in queste consultazioni si sono verificati un tasso di mobilità dell'elettorato (tra poli, ma anche tra partiti della stessa area) consistente e una crescente astensione. 
Se il 2009 era stato connotato dalla "vittoria dei 'secondi'", cioè dall'affermazione delle forze minori delle due coalizioni (Lega Nord e Italia dei valori) a danno di quelle maggiori, il 2014 ha visto il record di voti e percentuale del Pd (legato al c.d. "effetto Renzi" e mai più eguagliato), il risultato buono ma calante del MoVimento 5 Stelle e ha registrato gli ultimi tentativi riusciti di superare il 4% con un cartello (quello, graficamente discutibile, tra Ncd e Udc, poi trasfuso nel progetto di Area popolare ma durato poco) e con una lista di area, quasi di scopo (L'Altra Europa con Tsipras). Il 2019, infine, è stato segnato dalla grande avanzata in tutto il paese della Lega (non più Nord, ma pur sempre radicata soprattutto in quelle aree, mentre il M5S si è ormai meridionalizzato); il nuovo partito di Matteo Salvini è però riuscito a penetrare assai più nelle periferie rispetto alle "capitali regionali", al contrario del Pd che appare sempre più "urbano e metropolitano". 
 

Le regioni prima delle regioni

Arrivando al volume da poco uscito e che completa la trilogia, Luca Tentoni sceglie meritoriamente di iniziarlo ricordando in poche pagine la prima stagione delle regioni: quella che ha portato alla loro previsione nella Costituzione (si riassumono soprattutto il dibattito alla Costituente e il compromesso raggiunto in seno a quell'organo, senza trascurare ciò che è avvenuto nei decenni precedenti), ma anche gli anni della lunga inattuazione costituzionale. Com'è noto, si dovette attendere il 1968 per l'approvazione della legge elettorale per i consigli delle regioni a statuto ordinario e il 1970 per le prime elezioni regolate da quelle norme: "in seguito ai risultati negativi delle amministrative del 951 e al mancato scatto della legge maggioritaria per la Camera (1953) - ricorda l'autore - la Dc comprende che una rapida attuazione delle regioni può dare ai socialcomunisti uno spazio politico - sia pure locale, ma in almeno tre regioni del Paese - che può rappresentare una base istituzionale e politica di contrasto al governo centrale". 
Al "congelamento" degli anni '50 ha fatto seguito il "disgelo" degli anni '60 con l'avvento del centrosinistra: durarono a lungo le resistenze di varie forze politiche (soprattutto all'interno della Dc, ma non solo), anche intorno al sistema elettorale da adottare, con varie proposte di elezione di secondo grado, fino alla scelta di un meccanismo proporzionale con distribuzione di gran parte dei seggi su circoscrizioni provinciali. Il percorso di approvazione fu comunque lungo e accidentato e, dopo l'esito delle elezioni politiche del 1968 - non favorevole al disegno regionale - si dovette comunque aspettare il ritorno di un esecutivo di centrosinistra (dopo la strage di Piazza Fontana) per la fissazione delle prime elezioni regionali e l'approvazione della legge sulla finanza regionale, indispensabile per poter attuare davvero le regioni.
Queste pagine introduttive, pur prive dell'apparato di "numeri" che caratterizzerà i capitoli seguenti, sono importanti soprattutto per chi non ha sufficienti conoscenze delle dinamiche politiche e costituzionali, senza le quali è difficile inquadrare a dovere il ruolo effettivamente giocato dalle elezioni regionali dal 1970 in poi. Tentoni si premura anche di far notare che, volendo guardare ai dati elettorali delle elezioni dal 1946 al 1968 con riguardo alle sole future regioni a statuto ordinario, i partiti di centrodestra (Dc, Pli, Msi, monarchici) vedono ridotte le loro percentuali rispetto al dato nazionale soprattutto per il venir meno dell'apporto della Sicilia, mentre socialisti e comunisti raggiungono così quote più elevate: partendo da quei dati, si nota che tra il blocco di centro (Dc, Pli, Pri) e quello di sinistra (Pci, Psi, Psdi e Psiup, considerando l'intero periodo che precede il 1970) nel 1948 e nel 1958 prevale visibilmente il primo, mentre negli altri appuntamenti elettorali sono piuttosto vicini tra loro, ma la distanza aumenta se ai centristi si sommano i voti riconducibili al Psdi (che nel frattempo aveva partecipato a vari governi con la Dc).
 

I primi vent'anni (quelli del proporzionale)

Le prime elezioni regionali arrivano nel 1970, un anno di crisi politica (e in piena "strategia della tensione") ma anche di riforme rilevanti, in particolare l'approvazione dello Statuto dei lavoratori, delle norme sul referendum e della "legge Fortuna-Baslini" sul divorzio (in questo caso con l'opposizione della Democrazia cristiana, pronta ad avvalersi del nuovo strumento referendario per cercare di abrogare la legge); vota il 92,5% degli aventi diritto, ma le schede nulle e bianche sono comunque 1,3 milioni, con un aumento relativo rispetto al passato. 
La Dc perde qualcosa rispetto alle elezioni politiche, ma tiene bene soprattutto in Veneto (non a Venezia) e al Sud e conquista comunque la guida di 12 regioni su 15 (spesso avendo peraltro in giunta i socialisti, in una riedizione regionale del centrosinistra). La sinistra ottiene invece la presidenza delle altre tre: in Emilia-Romagna e Umbria tocca al Pci (che cresce in varie regioni, soprattutto al Nord e al Centro "rosso" e nelle zone urbane, ma non in Lazio e al Sud dove avanza il Msi), mentre il Psi guida la Toscana. Nel frattempo, la corsa autonoma di Psi e Psdi (dopo l'esperimento unificato nel 1968) mostra una volta in più che in politica 2+2 fa sempre meno di 4 e conviene procedere separati; a destra il Msi cresce, soprattutto nei capoluoghi di regione (ma più avanti crescerà di più), i monarchici sono quasi scomparsi.
Il successivo appuntamento del 1975
è preceduto da "una lunga e travagliata stagione politica" (già analizzata da Tentoni in Capitali regionali) tra elezioni anticipate, avanzata dei missini, proposte di "compromesso storico", primo referendum (che ha visto la sconfitta del fronte antidivorzista), terrorismo perdurante e maggiori poteri alla polizia. Tanto l'onda lunga del referendum sul divorzio (come fattore di secolarizzazione) quanto l'ampliamento della platea dei votanti (con l'abbassamento per legge della maggiore età da 21 a 18 anni, che di fatto ha innescato un ricambio dell'elettorato) influiscono nettamente sul risultato del voto: la Dc resta il primo partito, ma arretra (soprattutto in Veneto e nelle periferie), come pure il Pli; il Pci avanza invece sensibilmente (e un po' anche i socialisti), recuperando soprattutto voti dalla sinistra estrema e portando avanti lo schieramento di sinistra, che guida Piemonte, Liguria e Lazio oltre alle regioni conquistate nel 1970 (in presidenze guadagna però più il Psi del Pci). Quanto al Msi, va meglio rispetto alle regionali precedenti (e si distingue soprattutto nelle "capitali regionali" di Lazio e Sud allargato), ma cala rispetto all'exploit del 1972.
Non appare certo più tranquillo l'avvicinamento al voto del 1980, segnato da due elezioni anticipate (1976 e 1979), dal rapimento e dall'uccisione di Aldo Moro nel 1978 e da altri atti terroristici, dalla crisi economica e dall'inizio del "duello va sinistra" tra Pci e il Psi di Bettino Craxi. In un tempo segnato da vari scandali, l'astensione e le schede bianche/nulle aumentano; il Pci rispetto al 1975 perde quasi due punti (fuori dalle "regioni rosse"), vari consiglieri e la guida di una regione; i democristiani recuperano (soprattutto in Lazio e al Sud, ma si confermano deboli nei capoluoghi) e i socialisti guadagnano qualcosa (specie nelle "capitali regionali").
Cinque anni più tardi, nel 1985
, dopo una sola elezione anticipata (1983), i primi governi a guida non democristiana (i due esecutivi di Spadolini e i due di Craxi) e lo storico sorpasso del Pci sulla Dc alle europee del 1984 (dopo la morte di Enrico Berlinguer), le regionali appaiono soprattutto come "test dei rapporti di forza tra i partiti". Mentre calano, ma non dappertutto, democristiani e comunisti (e i socialisti crescono lievemente, e tendono a meridionalizzarsi, mentre sono al governo), sale il numero dei partiti effettivi: compaiono infatti le Liste Verdi (1,8%, con maggiore forza al Nord e nel Lazio, nonché in tutti i capoluoghi) e la Liga Veneta (3,7% in Veneto). 
Quest'ultimo avvento permette di trovare un tratto di continuità con le elezioni del 1990, quando - mentre l'affluenza cala ancora e le schede bianche e nulle invece aumentano - si impone la presenza della Lega Nord: grazie alla presenza in Parlamento della Lega Lombarda  - Lega Nord, riesce a presentare proprie liste in tutta l'Italia (magari declinata come Lega Centro o Lega Sud, ma sempre con la "pulce" di Alberto da Giussano) e, se nelle regioni "rosse" si ferma all'1,6% supera il 5% in Piemonte, Liguria e Veneto, arrivando addirittura al 18,9% in Lombardia (sempre però ottenendo risultati migliori in periferia rispetto ai capoluoghi). Il numero di partiti effettivamente rappresentati aumenta anche grazie al successo contemporaneo di Verdi e Verdi arcobaleno e ai pochi seggi ottenuti dai radicali che per la prima volta concorrono alle regionali, attraverso varie forme di liste antiproibizioniste. In tutto ciò, mentre la Dc cala un po' (soprattutto per la concorrenza leghista al Nord) e il Pci ci rimette parecchio quasi ovunque (anche perché, dopo la "svolta della Bolognina", è in piena transizione e ancora non si capisce dove finirà; non ne approfitta però Democrazia proletaria, che era andata meglio nel 1985), tra i partiti maggiori guadagna solo il Psi (essenzialmente in Lazio e al Sud).
 

Il secondo tempo (tra elezione diretta e nuovo Titolo V)

Un punto di svolta importante è costituito dal voto del 1995
: è il primo a prevedere di fatto la designazione popolare del presidente della giunta regionale - con premio di maggioranza per la coalizione collegata - e risponde al nuovo contesto della "seconda Repubblica", che ha adottato una logica maggioritaria in un clima di sfiducia e delegittimazione nei confronti dei partiti (soprattutto dopo gli scandali emersi dal 1992). Molte delle formazioni che avevano eletto consiglieri nel 1990, alla nuova scadenza elettorale non operano più (Psi e Pli), hanno cambiato nome e simbolo (Pci, Dc, Msi) o sono diventate quasi ininfluenti (Pri e Psdi); al di là della Lega Nord, sulla scena agiscono soprattutto le nuove versioni dei vecchi partiti (Partito democratico della sinistra, Partito popolare italiano, Alleanza nazionale, insieme alle forze che rivendicavano la coerenza ideologica con Pci e Msi, cioè Rifondazione comunista e Fiamma tricolore) e un soggetto politico nuovo nato con l'avvento della "seconda Repubblica (Forza Italia). Il malessere del corpo elettorale emerge dall'ulteriore calo dell'affluenza e del nuovo aumento dei voti non validi, ma anche da un indice di volatilità molto elevato; in più, l'11,9% dei voti va a beneficio dei soli aspiranti alla presidenza (al Sud però il fenomeno è più ridotto, essendo radicato il voto di preferenza).
Inizia qui, dunque, il fenomeno di progressiva personalizzazione delle campagne elettorali regionali
, centrate sulla figura candidata alla presidenza prima ancora che sulle forze politiche che la sostengono (anche per la possibilità di voto disgiunto o, più tecnicamente, panachage, con il voto all'aspirante presidente che ha maggior peso rispetto a quello alla lista per l'esito della competizione). Qui i candidati del centrosinistra riescono a prevalere in 9 regioni su 15, anche se in questa fase di solito le coalizioni sono più forti delle figure che propongono. Il Pds, come avveniva per il Pci, è più forte nei capoluoghi, mentre il Ppi - da intendersi come la parte vicina a Gerardo Bianco: le elezioni capitano nel bel mezzo della lite con i seguaci di Rocco Buttiglione, federati con i forzisti col nome di Polo popolare - è più presente negli altri comuni (com'era la Dc), ma con proporzioni ridotte rispetto al passato. Nell'altro schieramento, se Forza Italia è piuttosto omogenea tra centro e periferia, Alleanza nazionale è più forte in quasi tutti i capoluoghi e da Roma in giù (mentre la Lega, che qui corre quasi sempre da sola, è in fase calante, ma si conferma molto più forte in periferia rispetto alle "capitali regionali").
Opposto è l'esito delle elezioni regionali del 2000, tenutesi mentre il centrosinistra è al governo ma in cui quella coalizione risulta sconfitta, così come accadrà alle elezioni politiche circa un anno più tardi. Consolidato il meccanismo dell'elezione diretta (grazie alla riforma costituzionale del 1999 che la prevede espressamente, oltre a consentire alle regioni di determinare la propria forma di governo), cala di molto l'affluenza ma anche la volatilità del voto e la disomogeneità tra centro e periferia.  
Il ritorno della Lega Nord nel centrodestra porta la coalizione - la futura Casa delle libertà - a prevalere in 8 regioni su 15, anche grazie al buon risultato di Forza Italia (più in periferia che nelle "capitali regionali") e all'apporto dei centristi (Ccd e Cdu) e nonostante le flessioni di Lega Nord (che ha abbandonato la sua fase secessionista, iniziata dopo il 1995) e An (ma nei capoluoghi tiene di più). Il centrosinistra appare più frammentato e quasi sempre in calo: vale tanto per i Democratici di sinistra (che hanno raccolto l'eredità dei Ds), quanto per Rifondazione comunista, i nel frattempo nati Comunisti italiani e per Ppi e Democratici; Tentoni peraltro segnala giustamente in Veneto il primo vero esempio di "lista del presidente", a sostegno della candidatura di Massimo Cacciari (Lista Cacciari - Insieme per il futuro) e accolta con un ottimo 13,6%, facilitato anche dall'assenza delle forze centriste della coalizione. Va anche notato che la consultazione del 2000 è l'ultima a vedere il rinnovo contemporaneo di 15 amministrazioni regionali: nel 2001 si dovrà rivotare in Molise (per l'annullamento del voto dell'anno precedente causa irregolarità nell'ammissione delle liste) e da allora gli sfalsamenti saranno sempre più numerosi e rilevanti.
Finiscono per prefigurare l'esito delle successive elezioni politiche anche le regionali del 2005, le prime successive alla riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione nel 2001. In una logica pienamente bipolare, il centrosinistra prevale nettamente sul centrodestra, essenzialmente per essere riuscito a mobilitare di più e meglio il proprio elettorato (soprattutto al Sud e nelle grandi città), anche nelle regioni solitamente in bilico tra i due schieramenti. 
Tutt'altro scenario riguarda le elezioni del 2010
 (seguite a una riforma costituzionale respinta e a due elezioni politiche, nel 2006 e nel 2008 - queste ultime anticipate - anche se in effetti il periodo elettorale da considerare per le regioni va dal 2008 al 2011): il centrodestra (dominato dal Popolo della libertà) prevale in 7 regioni su 13. Nei singoli risultati, peraltro, risulta spesso determinante la collocazione dell'Unione di centro, a volte alleata del centrosinistra, a volte del centrodestra, altre volte ancora in posizione autonoma. Nel centrosinistra si deve rilevare un'avanzata significativa dell'Italia dei valori, soprattutto al Centro-Sud e soprattutto nei capoluoghi di regione (sarà però l'ultimo vero momento di gloria per il partito di Antonio Di Pietro); da ultimo, fa la sua prima comparsa in una competizione elettorale di rilievo il MoVimento 5 Stelle, con un elettorato ancora proveniente soprattutto dal centrosinistra e dall'Idv.
Nei turni elettorali regionali tra il 2013 e il 2015
 si conferma un nuovo mutamento consistente, con il centrosinistra che si afferma in 12 regioni su 15, anche grazie a un centrodestra spesso diviso (e con la rediviva Forza Italia in caduta libera, mentre la Lega Nord sta crescendo anche in regioni diverse da quelle tradizionali) e a un M5S assai più debole alle regionali rispetto alle elezioni politiche. Si deve peraltro dare conto, come correttamente fa Tentoni, dell'esplosione delle "liste del presidente", non di rado risultate la prima o la seconda formazione più votata della coalizione vincitrice: è il caso delle liste presentate a sostegno di Roberto Maroni in Lombardia (2013), di Luca Zaia in Veneto, Vincenzo De Luca in Campania e Michele Emiliano in Puglia (2015). Dinamiche molto simili si ripeteranno nei turni elettorali regionali dipanatisi dal 2018 al 2020: anche in questo caso, com'è noto, si è verificata un'alternanza, per cui la maggior parte delle competizioni è stata vinta dal centrodestra (stavolta a trazione Lega - Fratelli d'Italia, ma lo svolgimento delle elezioni nelle regioni a statuto ordinario in ben otto appuntamenti elettorali distinti non aiuta certo a svolgere una lettura complessiva di una realtà che a questo punto non presenta alcun tratto di omogeneità.

Tirando le somme

Luca Tentoni dedica l'ultimo capitolo del volume a varie considerazioni su tutte le consultazioni regionali svoltesi finora. Correttamente, anche in questa sede, si è considerato come punto di svolta il periodo 1995-2001, durante il quale è stata introdotta l'elezione diretta del presidente (con relativo cambio di sistema elettorale), si è modificata la forma di governo regionale in senso presidenziale e si sono contestualmente dotate le regioni di un maggior numero di poteri e funzioni: ciò tuttavia ha portato a una "regionalizzazione" solo parziale dell'offerta elettorale (essenzialmente con la presentazione delle liste personali di chi si candida alla presidenza e di altre formazioni di livello regionale o diffuse soprattutto in certe regioni) e dei comportamenti dell'elettorato (con il voto a tali formazioni, oppure con la pratica del "voto disgiunto" o al solo candidato presidente). 
In più, appare ragionevole l'osservazione in base alla quale, anche dopo la svolta ricordata, non si è davvero riusciti a rendere autonome le elezioni regionali (o meglio, la loro lettura e valutazione) rispetto al quadro politico nazionale: ciò valeva quando ci si limitava a fare il conto di quante regioni avesse ottenuto l'una o l'altra coalizione (più o meno omogenee rispetto a quelle operanti in Parlamento) nel turno elettorale regionale complessivo, ma ciò è ancora più valido da quando - vuoi per le dimissioni del presidente, spesso in seguito a scandali giudiziari, con applicazione del principio simul stabunt simul cadent, vuoi per l'annullamento delle competizioni elettorali per irregolarità riscontrate - si è prodotto un sempre maggiore "sfarinamento" delle elezioni regionali, con una distribuzione del rinnovo degli organi in un ciclo triennale (2013-2015 e 2018-2020 negli ultimi due casi). Per quanto questo abbia concentrato "per la prima volta l'attenzione dell'opinione pubblica e della stampa su regioni delle quali non ci si occupava mai in precedenza" (cosa che avrebbe dovuto favorire l'emersione delle peculiarità regionali), non si è mai rinunciato del tutto a vedere ogni singola competizione come un test per verificare la tenuta o la praticabilità di una coalizione a livello nazionale.
Si può condividere il rilievo di Tentoni in base al quale non sembra corretto qualificare le elezioni regionali come consultazioni di second'ordine, in base a quanto si è già detto per le elezioni europee. Innanzitutto si sono potute verificare dinamiche partitiche comunque autonome rispetto al quadro nazionale e consolidate, come la sistematica maggiore forza del Psi a livello regionale (in quanto forza concreta di governo, rispetto al livello nazionale) o al contrario la ricorrente debolezza nelle regioni del M5S, nemmeno nelle condizioni di porsi come principale forza di opposizione (per cui parte del suo elettorato nazionale fa puntualmente scelte diverse alle regionali). Guardando poi ai rapporti tra risultati delle elezioni regionali e delle elezioni politiche, non è affatto stata sistematica la penalizzazione dei partiti al governo del Paese (e quando questa non è avvenuta non è stato per forza attribuibile a una "luna di miele" con la maggioranza uscita dal voto politico) così come non si è sempre assistito a un elettorato più generoso nei confronti delle forze nazionali di opposizione, minori o nuove. Da ultimo, sono gli stessi partiti e leader politici (alcuni più di altri) a creare le condizioni per una "campagna elettorale permanente" o comunque a caricare di significati ulteriori le competizioni elettorali regionali: questo, tra l'altro, ha prodotto nuove forme di mobilitazione (incluse le citate "liste personali"), anche in considerazione dell'instabilità di certi sistemi regionali e di come determinate regioni (specie quelle considerate "rosse") assai di recente abbiano dimostrato di essere diventate contendibili.
Portando a compimento la riflessione iniziata nel 2018 con Capitali regionali, Tentoni rileva poi l'importanza della "geografia elettorale" nell'analisi dei risultati del voto: l'indice di disomogeneità geopolitica è mutato nel corso del tempo, vedendo progressivamente calare le distanze tra capoluoghi di regione e altri comuni nella "prima Repubblica" salvo che nella sua ultima consultazione (quella della crisi di Dc e Pci e dell'affermazione leghista e dei "verdi", pur se in modo diverso tra centri e periferie); nella "seconda Repubblica", invece, l'andamento dell'indice si è mostrato altalenante, fino a raggiungere nell'ultimo ciclo elettorale (2018-2020) i valori più elevati della storia regionale italiana.
Questo, in conclusione, per l'autore sarebbe solo uno degli indici di un comportamento elettorale degli italiani "costantemente diversificato e particolare", che anche in occasione del voto politico finisce per far emergere le differenze fra varie aree del Paese: pure quell'esito risulta infatti legato "alla volatilità delle regioni che sono in bilico anche in occasione dei rinnovi dei rispettivi Consigli e dei presidenti", così come "ci sono zone dove si vincono o si perdono le elezioni nazionali grazie a mutamenti di voto anche drastici e repentini", tipici delle aree regionali in cui "i sistemi partitici e i comportamenti di voto sono meno radicati e bloccati che altrove". Sono queste, del resto, le condizioni che favoriscono la messa in campo di simboli omnibus, assai poco identitari e centrati soprattutto sulla persona candidata o su una generica affezione alla regione o alla comunità territoriale, senza precludersi il voto di questa o quell'area politica tradizionale (per quel poco che ne resta): le ultime elezioni regionali, in questo senso, hanno mostrato vari esempi di questo tipo.
Ogni tentativo di "misurare" realtà e fenomeni immateriali come i comportamenti elettorali porta inevitabilmente con sé una marea di problemi, limiti e soprattutto di scelte: dei punti di osservazione, dei termini di paragone, dei parametri da impiegare. Certamente non è possibile osservare tutto, dunque non si riesce nemmeno a intuire e men che meno a dimostrare ogni decisione o movimento rilevante. Nonostante questo, i tre volumi dedicati da Luca Tentoni al comportamento elettorale in occasione del voto politico, europeo e regionale (sempre senza abbandonare l'attenzione per i capoluoghi di regione, in rapporto con il resto del territorio) mettono a disposizione un'enorme mole di dati utili a chi voglia osservare meglio le dinamiche elettorali: alcuni sono più facili da rintracciare (soprattutto in Rete, grazie all'archivio del Ministero dell'interno), altri - specie quelli relativi agli indici impiegati e alla situazione nelle "capitali regionali" e negli altri comuni - sono frutto di un lavoro certosino di calcolo e rappresentazione (in tabella o in grafico) dell'autore e, oltre a fondare le sue riflessioni, sono pronti per generare altre osservazioni per chi voglia approfondirli. 
La lettura dei tre libri di Tentoni - si può anche partire dall'ultimo, ma la comprensione è piena solo considerando l'intero trittico - di certo richiede molta attenzione per il gran numero di informazioni contenute; per chi ha meno familiarità con certi strumenti di osservazione dei dati può essere opportuna anche una discreta dose di pazienza, per cercare di apprezzare più a fondo la rilevanza di alcuni "numeri" offerti nelle varie pagine. Senza dubbio, tuttavia, l'opera qui analizzata offre un ritratto dinamico, attento e veritiero dell'Italia che vota: un ritratto certamente articolato e complesso, perché così lo ha reso - ancora di più negli anni recenti, ma anche in passato - proprio il comportamento di elettrici ed elettori, nelle mille sfaccettature che il Paese offre di sé.