La "partita" delle esenzioni dalla raccolta firme, tra disposizioni già in vigore o introdotte una tantum e interpretazioni discordanti dei testi, sta ampiamente tenendo banco in questi giorni, soprattutto con il caso che interessa Azione (dopo la scelta di Carlo Calenda di rompere l'alleanza con il Pd e non partecipare più alla lista comune con +Europa). Sarebbe un errore, però, pensare che questa sia solo storia di oggi: sul significato da dare ai testi normativi, infatti, si è giocato spesso: ciascuna parte, ovviamente, lo ha fatto nel tentativo di difendere le proprie posizioni e i propri interessi, ora a limitare, ora ad ampliare il numero dei soggetti esonerati.
Si è richiamato spesso, come esempio recente di interpretazione estensiva assai ampia delle disposizioni in materia di esenzione, quanto è accaduto prima delle elezioni europee del 2019, con l'uso intensivo dell'esonero per collegamento a un partito politico europeo (applicato anche in presenza di liste il cui contrassegno includeva simboli di partiti di altri paesi europei che erano riusciti a ottenere eletti al Parlamento europeo, non proprio la stessa cosa) e persino con il primo - e per ora unico - caso di una lista ammessa senza firme in quanto presentata da un partito politico iscritto al Registro. Uno "sdoppiamento" incredibile di esenzioni si ebbe in occasione delle elezioni politiche del 1992, quando nell'area radicale si riuscì a esonerare contemporaneamente la Lista Marco Pannella con il simbolo della lista Antiproibizionisti sulla droga (che nel 1989 alle europee aveva eletto Marco Taradash avendo corso senza firme grazie alla rosa radicale, senza pugno ma con foglie) e la lista Sì Referendum di Massimo Severo Giannini con la corolla della stessa rosa del Partito radicale (che aveva scelto di non presentarsi più dopo le elezioni del 1987, ma aveva comunque formato un gruppo alla Camera): praticamente due esenzioni quasi con lo stesso simbolo (pur se riprodotto in modo diverso), essendo stato usato in due distinte occasioni elettorali - 1987 e 1989 - da due soggetti politicamente legati ma distinti, entrambi nelle condizioni di esentare una lista.
Un episodio particolarmente interessante in materia di esenzioni e dell'interpretazione dei testi normativi in materia, però, lo si può trovare anche nel 1979, nei mesi precedenti le prime elezioni europee: merita di essere ripescato per comprendere meglio quanto quella materia sia delicata e "politica" e anche per apprezzare il modo in cui al problema sorto e alle esigenze emerse si era cercato di dare risposta in modo trasparente, nell'aula parlamentare.
Occorre concentrare l'attenzione sul percorso che portò all'approvazione della legge n. 18/1979, appunto quella con cui da allora è regolata l'elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia (anche se la disciplina è stata più volte modificata nel corso del tempo). L'articolo 12 prevedeva e prevede tuttora come regola la sottoscrizione delle liste da parte di almeno 30mila elettori in ciascuna delle cinque circoscrizioni previste, con in più l'obbligo - difficilissimo da adempiere, allora come oggi - che in ogni Regione ricompresa nella singola circoscrizione la lista raccolga almeno 3mila firme. Il comma 4 dell'articolo, però, contempla varie ipotesi di esenzione, che nel corso del tempo sono state notevolmente ampliate. In origine, in particolare, erano indicate soltanto due fattispecie, le stesse che tuttora si possono leggere nel primo periodo del quarto comma: "Nessuna sottoscrizione è richiesta per i partiti o gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare nella legislatura in corso al momento della convocazione dei comizi anche in una sola delle Camere o che nell'ultima elezione abbiano presentato candidature con proprio contrassegno e abbiano ottenuto almeno un seggio in una delle due Camere". Si trattava, a ben guardare, delle stesse due ipotesi di esonero introdotte nel 1976 per la legge elettorale politica, mentre prima tutte le liste avevano dovuto cercare sottoscrittori: in seguito si era ritenuta indice sufficiente di serietà della candidatura tanto la presenza di un partito alle Camere con almeno un gruppo parlamentare (anche se partito e gruppo erano nati durante la legislatura), quanto l'elezione anche solo di un/una parlamentare, purché quel risultato minore fosse stato ottenuto dal partito partecipando alle elezioni "con proprio contrassegno" (sì, la stessa espressione che è al centro della discordia in questi giorni...).
La disposizione sull'esonero della raccolta firme era già presente esattamente con quel testo nel disegno di legge presentato in prima battuta in Senato dal governo Andreotti IV ed era stata approvata tal quale, senza alcuna modifica. Mentre però il progetto di legge originario - il cui titolo, Elezione dei rappresentanti dell'Italia alla assemblea dei popoli degli Stati riuniti nella Comunità europea, merita di essere ricordato - prevedeva nove circoscrizioni e un numero di firme variabile a seconda della popolazione dei territori, nel corso della discussione a Palazzo Madama le circoscrizioni erano state ridotte a cinque e per tutte il numero minimo di sottoscrizioni da ottenere era stato fissato in 30mila. Considerando che gli elettori nel 1979 alle europee sarebbero stati 41.811.919, raccogliere 150mila firme in tutta l'Italia voleva dire avere il sostegno dello 0,36% del corpo elettorale: in teoria non era una quota impossibile, ma il vero ostacolo era ottenere almeno 3mila firme in regioni come la Valle d'Aosta, il Molise o la Basilicata, come la legge chiedeva.
Le forze politiche minori non rappresentate in Parlamento si resero subito conto della difficoltà. Capirono bene che avrebbero faticato a centrare l'obiettivo, però, anche al Partito di unità proletaria per il comunismo, visto che rischiava seriamente di raccogliere le firme: nel 1976, infatti, era riuscito a eleggere tre deputati, ma li aveva ottenuti partecipando alla lista di Democrazia proletaria, nata come cartello elettorale prima delle elezioni regionali del 1975 grazie al concorso del Pdup, del Movimento studentesco, di Avanguardia operaia e di altre forze minori, poi l'anno dopo si era aggiunta Lotta continua. Nel 1978, tuttavia, Dp si era trasformata in un partito autonomo e una parte del Pdup aveva scelto di continuare la sua esperienza politica per conto proprio. I deputati eletti da Democrazia proletaria erano ben al di sotto della soglia di venti persone necessaria per costituire in quella VII legislatura un gruppo a Montecitorio, ma l'Ufficio di presidenza della Camera concesse comunque la formazione di un gruppo di sei persone (c'erano anche un eletto di Lotta continua e due di Avanguardia operaia) perché la lista aveva ottenuto oltre 550mila voti (da regolamento ne sarebbero bastati 300mila). Quando Dp era diventata un partito e il Pdup se ne era distaccato, il gruppo non si era sciolto - così almeno pare di capire, visto che all'epoca i resoconti parlamentari erano piuttosto avari di indicazioni sulle vicende dei gruppi - ma era stato rinominato "Partito di unità proletaria per il comunismo - Democrazia proletaria": delle cinque persone rimaste all'interno, Massimo Gorla aveva aderito a Dp, Mimmo Pinto era rimasto legato a Lotta continua (si sarebbe poi presentato nel Partito radicale), mentre Luciana Castellina, Eliseo Milani e Lucio Magri erano riconducibili al Pdup.
Alle elezioni politiche il Pdup si sarebbe presentato regolarmente, mentre Democrazia proletaria e altre sigle avrebbero scelto di schierare le liste della Nuova sinistra unita alla Camera (mantenendo il pugno di Dp ma senza falce, martello e globo: una scelta che non avrebbe affatto pagato) e spesso liste comuni di radicali e Nsu/Dp al Senato, ma alle elezioni europee Democrazia proletaria avrebbe voluto partecipare tanto quanto il Pdup. Il gruppo parlamentare alla Camera era formalmente condiviso tra Pdup e Democrazia proletaria (con prevalenza del primo soggetto), ma era stata Dp ad avere partecipato alle elezioni "con proprio contrassegno". In quel contesto va letto l'emendamento presentato da Luciana Castellina, capogruppo di Pdup-Dp, con cui si chiedeva di non esentare dalla raccolta firme solo i partiti "costituiti in gruppo parlamentare", ma in generale quelli "che abbiano rappresentanti in Parlamento". Fu lei stessa a illustrare le ragioni della sua proposta, in un intervento in aula nella seduta del 18 gennaio 1979:
se è vero che si è deciso che il Parlamento europeo deve essere eletto a suffragio universale diretto e non mediante elezione di secondo grado, ciò è vero perché si è ritenuto che a quel livello potessero prevedersi altre aggregazioni politiche, sicché il Parlamento europeo non dovesse necessariamente riflettere la geografia politica di quelli nazionali; altrimenti bastava che i deputati del Parlamento europeo li eleggessimo in questa aula. Non intendo sollevare il problema più generale che questa osservazione solleciterebbe in merito al disegno di legge che ci accostiamo a votare e che presupporrebbe la completa libertà di presentazione di liste; in questo spirito, mi tengo però ad una osservazione più limitata: cioè, la formulazione dell’articolo 12 è tale da parere preclusiva del diritto di presentazione di liste persino da parte di quei gruppi politici organizzati e partiti (qual è il caso della sinistra indipendente, per esempio, o il nostro) che, pure essendo in Parlamento, non coincidano con uno specifico gruppo parlamentare. E dunque per sciogliere questa ambiguità che ho presentato questo emendamento.
In effetti stupisce un po' l'intervento di Castellina, visto che lei parlava di partiti "che, pure essendo in Parlamento, non coincid[o]no con uno specifico gruppo parlamentare" anche con riferimento al Pdup, che pure era presente nella denominazione del gruppo (le parole si addicevano di più alla sinistra indipendente, che costituiva sì un gruppo unico parlamentare di persone elette nel Pci ma non faceva emergere i nomi di eventuali partiti che avevano eletto più candidati in quel modo). Si può solo immaginare, dunque, che - magari ritenendo disgiuntiva e strettamente alternativa la "o" tra il riferimento al gruppo e quello all'elezione con proprio contrassegno - non si ritenessero possibili o comunque accettabili "sdoppiamenti" dell'esenzione quando c'era già un gruppo comune derivante da una sola lista: si pensava, in pratica, che un gruppo con due soggetti politici nel nome non potesse esentare la forza che non era ufficialmente finita sulle schede, esonerando contemporaneamente l'altro soggetto politico che aveva concorso ed eletto "con proprio contrassegno". Il tono dell'intervento di Castellina è comunque significativo: nelle sue parole non si riferì mai all'esenzione dalla raccolta firme, ma parlò direttamente di "preclusione al diritto di presentare liste" per i soggetti presenti in Parlamento ma senza gruppo proprio autonomo, facendo subito capire che la raccolta firme così come prescritta si configurava come fuori dalla portata di molti partiti, persino se rappresentati in Parlamento.
Il sottosegretario all'interno Clelio Darida (Dc) espresse in generale un parere contrario sui vari emendamenti al testo in discussione, perché riteneva che dovesse essere approvato "così come pervenuto dal Senato": forse lo fece anche per non allungare i tempi di approvazione della legge e farla entrare in vigore in tempo utile (il d.d.l. era stato presentato dal governo il 28 luglio 1978 e le elezioni europee si sarebbero tenute il 10 giugno 1979, una settimana dopo le politiche). Darida indirizzò però una risposta diretta a Luciana Castellina, rendendosi forse conto che la barriera all'ingresso elevata in occasione delle elezioni europee era in effetti troppo alta e non era bene penalizzare troppo i partiti presenti in Parlamento in modo conclamato: precisò dunque che il governo era "favorevole ad una interpretazione non strettamente letterale del testo, nel senso che le forze politiche ed i partiti organizzati presenti in Parlamento non debbano raccogliere ex novo le firme, anche se si sono presentati nella circostanza elettorale con un simbolo, ad esempio, unificato". Sempre Darida invitò peraltro Castellina a ritirare l'emendamento, qualora la lettura accolta dal governo fosse stata sufficiente per risolvere il problema da lei fatto emergere: secondo il sottosegretario, infatti, un eventuale voto contrario sull'emendamento (che sarebbe arrivato, visto il parere negativo del governo, della commissione e probabilmente l'idea contraria della maggioranza) si sarebbe potuto tradurre in una "interpretazione letteralmente restrittiva in senso opposto" (quindi molto più rigida rispetto alla lettura proposta dal governo). In effetti Castellina ritirò l'emendamento, segno che, pur non avendo parlato di firme; il problema era proprio quello e riguardava in primis la situazione del suo gruppo. Alla fine alle europee si presentarono tanto il Pdup quanto Dp: il primo raccolse 406.656 voti (1,16%), la seconda si fermò a 252.342 (0,72%), ma entrambe le liste ottennero un eletto.
In effetti, col senno di ora, può sembrare un po' strano considerare "un simbolo unificato" il contrassegno di Democrazia proletaria: tutt'al più la cosa poteva riguardare solo il Pdup, il cui elemento grafico era sostanzialmente stato conservato (anche se in effetti il globo visibile sotto la falce e il martello era schiacciato per il Pdup e tondo per i demoproletari). A quel primo ampliamento "immediato" ne sarebbero seguiti altri, introdotti però con modifiche legislative: se nel 1984 sarebbero stati esentati i partiti che all'ultima elezione avevano ottenuto un seggio al Parlamento europeo (proprio quella disposizione che, non indicando espressamente che quegli eletti dovevano essere stati conseguiti in Italia, ha aperto la strada all'esenzione mediante i partiti europei), nel 1990 si sarebbe ufficialmente riconosciuta l'esenzione alle liste marcate da "un contrassegno composito, nel quale sia contenuto quello di un partito o gruppo politico esente", codificando in sostanza la pratica della "pulce", già nota da anni. Si trattava di una fattispecie diversa da quella emersa nel 1979, pur riguardando sempre emblemi composti: l'ipotesi prevista dal 1990 riguarda un contrassegno composito "a valle", cioè concepito come "complesso" proprio per esentare la lista con uno dei suoi elementi; il problema posto da Castellina e affrontato da Darida, invece, concerneva un contrassegno composito "a monte", che mostrava visivamente la coesistenza di più forze politiche nelle stesse liste.
La soluzione proposta allora dal governo sembra andare nella direzione auspicata da alcuni in questi giorni, a sostegno dell'esonero dalle firme a ogni parte autonoma di un contrassegno composito che abbia ottenuto eletti. Non è fuori luogo pensarlo, ma occorre tenere conto di alcuni dettagli fondamentali: innanzitutto il governo e il ministero in quell'occasione si erano espressi, per giunta in una sede più che ufficiale; secondariamente, l'interpretazione riguardava le elezioni europee e non le politiche, non potendosi automaticamente estendere soluzioni e orientamenti maturati in un'ipotesi a un'altra ipotesi diversa (pur affine). Si può apprezzare in ogni caso tanto il tono di Castellina (che auspicava ancora più apertura rispetto alle elezioni politiche) quanto quello di Darida, collaborativo, concreto e soprattutto trasparente, nell'avere chiarito in sede pubblica (con tanto di resoconti a documentarlo) quale lettura il governo - e, dunque, le strutture serventi in caso di consigli richiesti - sarebbe stato disposto a perseguire. Senza bisogno di chiamare in causa istituzioni esterne (come il Parlamento europeo), che nessun potere hanno sull'interpretazione del diritto interno, o di richiedere e annunciare pareri blasonati, ma difficilmente in grado di superare il dato letterale di una disposizione scritta poche settimane fa con parere favorevole del governo esattamente sul quel testo.
Si ringrazia di cuore Giuseppe Calderisi per avere fatto riemergere, mesi fa, questo episodio in una conversazione nata per un altro scopo (preparare il libretto sui simboli della Lista Pannella del 1992).
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