giovedì 10 gennaio 2013

In fila per la democrazia

Non potendo raccontare in diretta la fila che in queste ore, anche sotto la pioggia, si sta dipanando davanti al Ministero dell'Interno, mi sembra giusto almeno ricordare le file degli anni precedenti. Il tutto soprattutto grazie a un testimone di eccezione, Mirella Cece.

Centinaia di ore, una dopo l’altra. Anche di notte. A turno, se si riesce, altrimenti quelle ore vanno macinate da soli, finché si regge. Uno sforzo massacrante, alla fine dei conti, ma per la democrazia – e per non farsi fregare – c’è chi fa questo e altro. Sembra semplice, mettersi in fila davanti all’ingresso del Ministero dell’interno per depositare il proprio simbolo con cui si vuole partecipare alle elezioni; anche per rinnovare le amministrazioni di comuni e regioni si fa la coda, davanti ai municipi o agli uffici giudiziari, ma non è nulla in confronto alle scene che si vedono per la presentazione degli emblemi per le elezioni politiche ed europee.
Dice la legge elettorale che i contrassegni si depositano «non prima delle ore 8 del 44° e non oltre le ore 16 del 42° giorno antecedente quello della votazione», ma i veri presentatori pattugliano il Viminale da giorni. Una volta lo facevano per assicurarsi il primo posto sulla scheda – non a caso, la falce e martello del Pci era quasi sempre «in alto a sinistra», almeno prima delle puntuali scazzottate con i radicali dalla metà degli anni ’70 – ma dal 1991 in poi l’ordine dei simboli sulle schede è determinato con sorteggio. Per il primo posto, però, si continua a litigare. Chi ha paura di farsi copiare è disposto a fare la fila di giorno e di notte pur di essere tra i primi a entrare; chi ha intenzioni provocatorie e vuole depositare qualche simbolo “furbetto”, anche.
In quei giorni, pochi o tanti che siano, fare la fila davanti al Ministero, tra le transenne che vengono predisposte per dare un minimo di ordine agli aspiranti depositari, è quasi un lavoro. A volte perfino pagato (in nero ovviamente): c’è chi se li ricorda ancora, i 10 euro pagati ad alcuni rom per ogni ora che nel 2008 avevano passato davanti al Viminale – lo riportava Repubblica – per dieci, forse dodici giorni, un conto piuttosto salato, alla fine. Salato ma necessario, se si vuole ottenere il risultato: se non si trova qualcuno che faccia la fila al proprio posto, è praticamente impossibile muoversi: giusto venti minuti, mezz’oretta al massimo ogni tanto, per mangiare qualcosa e trovare un bagno. Di entrare nel corridoio del Ministero, prima che scatti l’orario di apertura del deposito, non se ne parla; di notte, anche nei due-tre giorni dedicati alla presentazione, nemmeno. Uno dei pochi bar in zona Viminale chiude a mezzanotte e non riapre prima delle sei: hai voglia a cercare un gabinetto, a quell’ora.

Manco a dirlo, vietato anche solo pensare di andarsene a casa o in hotel per dormire; qualche fortunato autorizzato a entrare in centro storico con l’auto o con un camper, arriva fin sotto il palazzo ministeriale e, quando può, dormicchia o almeno si siede per dare pace ai reni; qualcuno ogni tanto cerca di sfruttare le panchine, con tanto di sacco a pelo, ma che dorma sul serio è difficile da credere. Qualcuno legge, moltissimi telefonano, altri chiacchierano: i depositanti veterani, in fondo, si conoscono tutti e si ritrovano puntualmente, ansiosi (e a volte un po’ timorosi) di scoprire cosa gli altri avranno escogitato questa volta.
A una di quelle persone, veramente, l’etichetta di «veterana» va davvero stretta. Mirella Cece, fondatrice nel 1994 del «Sacro romano impero liberale cattolico» (tutto intero, mi raccomando), da allora non ha mai mancato un deposito di contrassegni, anzi, è diventata un ingrediente fondamentale di quel momento: l’ordine della fila, di fatto, lo tiene sempre lei. Se non c’è (ancora), i funzionari del Viminale si preoccupano e la chiamano. Pensare che tutto, al solito, era iniziato per caso: «Nel 1994 ero in fila con altri e ricordo il gruppo dei militanti leghisti, molto vivaci e rumorosi, loro e altri erano arrivati quasi alle mani, giusto io me ne stavo in disparte. Le forze dell’ordine, lì per calmare gli altri, mi videro e mi chiesero se potevo occuparmi io di distribuire i numeri per disciplinare la fila: io avevo un po’ di paura, temevo che non mi avrebbero dato retta, ma l’agente rispose “Con la sua calma e il suo rigore saprà farsi rispettare, ripasseremo a controllare, ma non ce ne sarà bisogno”». Ci azzeccò in pieno: da allora la Cece ha avuto il rispetto di tutti, pur essendo stata sempre rigorosissima nel suo compito. «Quando le persone arrivano – ricorda – consegno loro il numero e faccio firmare una ricevuta, l’ora esatta di arrivo la scrive ogni aspirante, guardando il suo orologio: se uno ha bisogno di andare al bar per una mezz’ora, basta che me lo dica e tengo il posto, ma a chi va in giro annullo il numero».
Si è organizzata ormai, l’avvocato Cece: poco prima che il portone si apra, i militari si vedono puntualmente consegnare ciò che resta di un blocchetto numerato a tre matrici, una per le persone in fila, una per i militari che possono verificare l’ordine, una per la stessa Cece («Li conservo ancora tutti, uno a uno»). Dopo che lei è entrata per depositare i simboli, il libretto passa alla prima persona disponibile: puntualmente, non ha la stessa autorevolezza e qualcuno inizia a fare il furbo. Lei, invece, li ha messi in riga tutti, sempre.
Una volta, per dire – era il 1999 – ha domato persino quel vulcano di Giancarlo Cito, della Lega d’azione meridionale: era andato da lei per avere il numero, ma non era soddisfatto per niente. «Ah, no, io sono il numero uno!» «Io nemmeno lo conoscevo e lui disse che aveva diritto ad essere il primo, ma fui irremovibile: “Oh no, non con Mirella Cece: qui si parte da zero, siamo tutti zeri, il numero va in base all’arrivo”. lui continuava a fare confusione, i suoi mi stavano accerchiando, ma rimasi calma e sorridente: “O prende questo numero o il contrassegno non lo presenta”». Avrebbe potuto rimetterci la salute, invece lui se ne uscì un po’ sorpreso: «Ma che è questa, una donna o un uomo?» «Perché, secondo lei le donne che sono, delle fesse?» si sentì rispondere. Non seppe dire no, nemmeno lui, a Mirella Cece: prese il numero un po’ troppo alto per i suoi gusti, accettò di firmare la ricevuta e finì, sempre su cortese invito dell’Imperatrice, a offrire pizza e bibite a tutti quelli che erano in fila da giorni, affamati. «Lo fece sul serio, ma quando provò ad andare a dormire in albergo, non glielo permisi: “Ma come, ho anche pagato la pizza!” “Se se ne va, le straccio il foglio”». Ovviamente restò lì coi suoi e, alle europee di quell’anno, finì persino per candidare la Cece nella sua lista, accettando che facesse campagna elettorale con le sue idee.
Dall'archivio Ansa
Un anno diede filo da torcere anche Gaetano Saya, quello del Nuovo Msi: «Nel 2008 arrivò e gli spettava il numero 6, ma insisteva non so perché per andare per primo e non senza prepotenza ricorda la Cece –. Quella volta, tra l'altro, non ero nemmeno io davanti agli altri, il primo era Renzo Rabellino, ma fossi stata anche la prima non l'avrei fatto passare
». Alla fine ha desistito, un po' stizzito, non senza mandare al Ministero un fax in cui comunicava il suo numero d'ordine, lo stesso che gli voleva dare la Cece, «ma lo ha fatto apposta per darmi segno che non riconosceva il mio ruolo»; peccato che gli agenti, quel fax, l'abbiano portato proprio a Mirella Cece, loro quel ruolo lo riconoscevano eccome. Molto più signore, a questo punto, Giuliano Ferrara, prentatosi con berretto, sciarpa e cappotto, che a quelle stesse lezioni presentò il simbolo del suo "Aborto? No, grazie", ricevendo il numero dall'avvocato Cece senza battere ciglio.
Ecco, Mirella Cece è davvero una donna che, da quando arriva davanti al Viminale, non lascia la postazione un minuto. «Io resto sulla piazza perché non mi fido di nessuno e non mi faccio dare il cambio, sia mai detto che qualcuno depositi le mie idee e se ne appropri». Si prepara così a sopportare anche le notti, sempre troppo lunghe, leggendo e parlando con tutti, poi ormai si è organizzata: «Ho fatto un accordo con il bar vicino al Viminale: io mangio sempre e comunque da loro e loro, in cambio, la mattina presto mi concedono la loro toilette per mezz’ora, così ho tempo di sistemarmi».
La signora, che di file ne ha viste parecchie, riconosce che il rito almeno in parte è cambiato: un tempo c'era più entusiasmo, nel senso che anche il deposito dei contrassegni era un momento ricco di emozioni e spesso venivano i personaggi più importanti dei partiti, che oggi invece è molto più difficile vedere. Una volta entrati, invece, è cambiato piuttosto poco: i primi che entrano, accompagnati dai poliziotti, si sottopongono al controllo delle borse, ricevono il "passi" per entrare, poi sempre "scortati" – si percorrono i corridoi del piano terra fino ai tavoli predisposti per l'accettazione degli emblemi. Lì si depositano i contrassegni in triplice copia (assieme ai programmi, ai nomi dei rappresentanti di lista, a eventuali dichiarazioni di collegamento e al capo della forza politica o della coalizione) poi si può uscire. Quando i primi escono, la gente fuori è ancora tanta, cui si aggiungono spesso vari curiosi e un sacco di giornalisti. Loro, a dire il vero, si fermano già nei giorni precedenti, spesso cercano di parlare con qualcuno, ma quasi sempre vengono mandati dall'unica persona "che sa tutto", ovviamente Mirella Cece. Roba da Sacro romano impero (purché sia cattolico e, al limite, liberale).

Nessun commento:

Posta un commento