martedì 15 gennaio 2013

Alle radici del boom simbolico

Le parole hanno vita propria: hanno le gambe, viaggiano, si duplicano, fanno figli, si uniscono in frasi e sollecitano chi incontrano. Una frase a forma di domanda, in particolare, sembra aver percorso le redazioni politiche di molte testate in questi giorni: "a che serve?" Che scopo ha tenere per due giorni e mezzo apertissimi gli uffici del Ministero dell'interno, aprendoli a un manipolo nutrito di persone munite di cartelle, documenti e, soprattutto, dei simboli più diversi tra le mani o nelle carpette. Nuovi, vecchi, frusti, rinfrescati, colorati, taroccati, minimalisti, rutilanti: esce di tutto da quei portadocumenti ed è una sorpresa per funzionari, giornalisti, fotografi, curiosi, avversari e sodali. Per tutti, insomma, all'infuori di chi li crea. E non vede l'ora di dimostrare la loro esistenza, oltre che la sua.
"Perché così tanti? Da dove saltano fuori tutti?" Anche questo se lo sono chiesti in molti, dimenticando forse che il numero pur ragguardevole di 215 (219, considerando anche le varianti) non è riuscito a battere il record ancora lontano dei 304 ammessi nel 1994 (cui aggiungere gli emblemi ricusati e più o meno sostituiti). La tentazione di rispondere in fretta alle ultime due domande è forte, magari dicendo che, in mancanza di elezioni seriamente anticipate, i presentatori seriali di emblemi hanno dovuto sopportare un'astinenza lunga ben quattro anni (dalle ultime elezioni europee, datate 2009) e ora dovevano trovare assolutamente sfogo, con la prospettiva allettante - la scintilla che può far esplodere un'aria già carica di energia repressa e non priva di zolfo - di poter dare corpo a quei simboli con una lista facile facile, vista la strenna di fine anno (e fine legislatura) della riduzione al 25% delle firme necessarie per presentare le candidature.
Eppure l'obiettivo non va perso di vista, la vera domanda è e resta "a che serve?" L'obiettivo merita, così di risposte possiamo darcene più di una. Una del resto, l'abbiamo già data: dimostrare la propria esistenza politica. Nel senso più ampio del termine, si capisce. Da bravi cittadini, ci si fanno venire delle idee, si dà loro l'immagine di un contrassegno e ci si mette in fila per conquistare un briciolo di attenzione, per le idee e per chi le porta. Che poi sia l'attenzione di serissimi funzionari, trasformati per una manciata di ore in recettori di democrazia, o di dio sa quanti cittadini raggiunti dalle immagini riprese con le telecamere, non cambia molto: certo, non ci fossero i giornalisti la fila sarebbe forse un po' meno folta, ma qualcuno si metterebbe in coda lo stesso, c'è da giurarlo.
Altre risposte, però, attendono. Perché mettersi in fila per la democrazia può servire anche a ricordare che certi partiti esistono. Anche se si credevano morti e sepolti, anche se nelle cronace lasciano difficilmente traccia di sé (tranne, beninteso, quando il voto di fiducia è risicato e anche un raffreddore può essere insidioso per la maggioranza). Allora spuntano querce, piramidi o scie tricolori, garofani verosimili, foglie rimodernate di edera e cose di quel genere, a ricordare che una determinata sigla esiste, a dispetto dei cronisti che non ne parlano e delle persone che, inspiegabilmente, vivono anche ignorando la sua esistenza.
Serve, ancora, a vedere com'è cambiato questo paese, ormai da tempo a colori, sempre molto creativo ma non necessariamente secondo la via migliore (almeno a giudicare dalla gastrite che certi grafici autoqualificati sembravano avere in fase di creazione), mentre qualcuno, mentre trionfano assoluti Photoshop ed effetti cromatici tanto esagerati quanto pacchiani, si premura ancora di prendere la matita e disegnare un'immagine verosimile e leggibile (ad esempio, la figura del clochard con calze bucate e fagotto contenuta nell'emblema di di Come ci hanno ridotto, forse la migliore di tutte quante e che pure è stata depositata tra le ultime nelle bacheche del Viminale). 
Serve a ricordarci, quello sesso rito, che ci sono minimi comuni denominatori, a volte del tutto inimmaginabili (si vedano le due immagini del Dna che campeggiano sul simbolo di Fratellanza donne e sul logo del nuovo partito di Cicciolina - al punto che il secondo rischia la ricusazione - e si rifletta sull'accostamento improbabile, quasi grottesco che le due formazioni sono costrette a subire, certamente senza la minima volontà da parte dei grafici). Altre volte quei comuni denominatori sono tanto ovvi quanto duri a morire: i quattro scudi crociati apparsi in bacheca dicono chiaramente da dove vengono (o dove vorrebbero andare) i loro presentatori, ma non sembrano proprio in grado di dire nulla sulla loro identità. Oggi, per lo meno.
Già, perché un tempo cambiare simbolo era un affare maledettamente serio, da prendersi quasi a cazzotti o, più signorilmente, da interrogarsi turbati e discutere per ore: c'era chi accettava e chi, sdegnato, diceva no. Ora, invece, puoi scoprire che, giusto sotto elezioni, un partito ha deciso di cambiare veste e non.
Se non ci credere, andate con serenità a vedere, per esempio, i loghi dei Popolari di Italia domani (il cambiamento è così radicale che il Viminale dovrebbe ricusare il segno, visto che c'è l'obbligo di utilizzare il contrassegno "tradizionale") e dei Moderati italiani in rivoluzione dell'avvocato-banchiere Gianpiero Samorì, che nel giro di pochi mesi sfoggiano il terzo simbolo, praticamente nuovo, senza che quasi nessuno si sia minimamente preoccupato per questo nuovo cambio. 
Tutto ciò sempre che, naturalmente, qualcuno si sia accorto davvero della sostituzione dell'emblema, senza invece lasciarsi distrarre da pensieri su come fare la rivoluzione e restare moderati.
 Chi, in fondo, ha deciso il cambio di emblema non ha avvertito nessuno, nemmeno il webmaster del sito. 
Ecco, forse mettersi in fila per la democrazia serve anche a questo, ad avvisare chi di dovere che il logo è cambiato, senza convocare assemblee: chi se ne accorge per primo, strabuzza gli occhi, dice "Che strano...", ci pensa un attimo, poi decide di cambiare canale. Clic.

1 commento: